La letterarietà (del fumetto) come problema

Il tema non è nuovo da queste parti. Per esempio, ne ho discusso qui, qui e qui (by Gipi), con l’aggiunta di qualche commento qui e qui. Ma per tenerlo vivo rimando al bel testo di Eddie Campbell, “I Letterati”. Che utilizza esempi americani, dal Comics Journal a Hooded Utilitarian (fra gli interventi critici) e dagli EC Comics alla produzione Marvel (tra i fumetti).

Trascorsi ormai 40 anni della scalata del fumetto verso una più seria considerazione, è probabile che ormai, a chi volesse mettere il fumetto sullo stesso piano della letteratura, non capiti più di trovarsi sommerso dalle risate. Il rovescio della medaglia di tale riconoscimento del medium è che esso ha anche acquisito una nuova specie di critico, che esige che i fumetti si attengano agli standard della LETTERATURA. Dall’invasione di questi letterati in poi, ho notato la tendenza a porre sempre più spesso la domanda: se non fosse un fumetto, potrebbe mai stare in piedi? Rimarrebbe una buona storia, se fosse resa in prosa, e se fosse posta a confronto con il resto della prosa mondiale? Se togliamo tutte queste maledette immagini, ciò che ne resta meriterebbe comunque? […]

I letterati sono inclini a discutere se l’apprestare una trama è abbastanza per rivendicare una paternità autoriale, o se il vero scrittore, in questo caso, è stato il disegnatore. Ma una volta che l’argomento è messo sul tavolo, si può andare a finire in qualsiasi direzione, ed è altrettanto probabile negare che una trama sia mai stata data […] Niente di tutto questo mi è mai importato, anche se riconosco che la proprietà del franchise di un film di successo potrebbe fare la differenza a questa o quella parte in gioco. Ma i film non mi interessano, e non mi preoccupo di questo. Nessuno di costoro ha mai colto, per esempio, la cosa che ha reso i fumetti Marvel eccitanti per me nel 1965, quando li ho scoperti per la prima volta.

Quella cosa è possibile trovarla solo nelle pagine reali dei vecchi fumetti, ed è quello che tentiamo di descrivere con le parole “Marvel style”. Il “Marvel style” non è solo un modo diverso di arrivare allo stesso risultato, vale a dire una storia in senso letterario, ma un modo di arrivare a qualcosa di diverso. L’essenza di questa cosa ben diversa tende a sfuggire alla convenzionale analisi letteraria, in un modo che rende i vecchi fumetti Marvel degni di molto meno rispetto e attenzione, oggigiorno. Ecco dunque una pagina da Tales of Suspense # 85, gennaio 1967.

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[…] Per tornare al punto di partenza, è mai possibile che questo fumetto Marvel stia in piedi se leviamo le immagini? Per niente. E questo lo rende senza valore? I letterati direbbero di sì, senza dubbio. […]

Scrivere fumetti è una competenza speciale molto diversa dallo scrivere in prosa. Ma prima di lasciar perdere, chiedo: si possono levare le immagini di una vignetta sportiva, o ridurre la performance circense di un clown alla sua trama? Può tutto ciò che riguarda una performance musicale essere convogliata in un pentagramma, o può tutto ciò che riguarda un film essere compreso dalla sua sceneggiatura?

Quando su Crepax si scontrava la critica (2 di 2)

A breve distanza dalla stroncatura di Briganti di cui vi dicevo ieri, Panorama (4 maggio, 1976) pubblicò un articolo che ricostruiva la polemica, contribuendo a rilanciarla e, insieme, chiarirla. Non senza parteggiare per Crepax.

Il pezzo si intitolava “Crepax? Non mi va”, ed era firmato da Marco Giovannini. L’inizio ricordava la familiarità di Crepax con alcune polemiche:

Alle polemiche c’è abituato. Undici anni fa su Linus rivoluzionò la tecnica del fumetto frazionando l’unità della pagina e suscitando prima lo sbigottimento e poi le ire dei puristi. Da allora a oggi è stato via via accusato di intellettualismo, ermetismo, antifemminismo, pornografia. Ma è la prima volta che qualcuno gli dice che non sa disegnare.

Eppure l’architetto Guido Crepas, Crepax per i fumettisti, è, secondo Giuliano Briganti, professore di storia dell’arte a Siena, uno dei massimi esperti del Seicento, “un banalissimo disegnatore dotato di un’abilità lugubre che confondendo erotismo con onanismo offre ai giovani inesperti liceali in fregola un cocktail di Playboy, Crazy Horse, donnine art déco e suppellettili falso floreali, che crede di toccare le punte più alte del sadomasochismo disegnando lividi e staffilate sui culi longilinei delle sue Valentine. Arte? Neanche per idea. Se ne stia nelle edicole di via Veneto e lasci perdere le gallerie”.

Giovannini prosegue con la descrizione puntando, dopo aver già esplicitato il primo argomento di Briganti – l’abilità nel disegno – con il secondo: l’accostamento Crepax/Tadini, giudicato ‘indiscriminato’ dal critico:

L’attacco che ha fatto sobbalzare i fumettologi riportandoli “agli anni bui” in cui le strips erano considerate degne al massimo di stare nella cartella dei bambini, pubblicato sulla Repubblica (Briganti è il critico d’arte) si riferiva alla mostra che Crepax ha organizzato a Roma alla galleria Rondanini: 85 tavole a fumetti tratte dai libri delle sue eroine (da Valentina all’Histoire d’O). C’è differenza fra un quadro e una litografia e un disegno a fumetti d’autore? Secondo gli organizzatori della mostra, che hanno affiancato Crepax al pittore Emilio Tadini, assolutamente no. Secondo Briganti assolutamente sì. Almeno riguardo a Crepax: “un autore alla moda (pettinature di Vergottini, giarrettiere, scarpe col cinturino) con pretese intellettualistiche e con un segno morto, molto accademico, un segno che non è neanche un segno. Mischiare disegnatori come lui e artisti seri, è follia”.

Il giornalista offre qualcosa di più della mera descrizione della polemica. E prova a ricostruirne un po’ il retroterra, interrogando lo stesso Briganti. Del quale, con perfida ironia, ne illustra la competenza cogliendo un dettaglio domestico: “un intero piano della libreria”. Non molto, già. Ma quanto basta per fare esprimere il critico in merito. Esponendolo al rischio di mostrare falle nella propria preparazione. Cosa che puntualmente avviene, come nelle considerazioni su Disney o Pericoli&Pirella:

Briganti dice di intendersi di fumetti: a casa ha un intero piano della libreria dedicato ai comics. Per questo può permettersi giudizi molto personali, anche taglienti. « I personaggi di Walt Disney sono quasi metafìsici per quanto sono brutti. Topolino, poi, è addirittura repellente »; « Jules Feiffer è scocciante », « Pericoli e Pirella copiano a piene mani da una vecchia striscia che pubblicava Il Giorno anni fa: il prof. Pi dell’olandese Bob van der Born”.

due vignette di “Professor Pi”

Approfondita – e garbatamente ridicolizzata – la figura di Briganti, Giovannini passa la parola allo stesso autore oggetto dell’attacco. Che risponde per le rime proprio sul primo argomento, il disegno:

Crepax, dieci libri alle spalle pubblicati perfino in Finlandia e Giappone, e dieci mostre (la prima nel 1968, sei negli ultimi due anni) giudica l’attacco “villano e abietto”. E spiega: “Sarò un presuntuoso ma sono convinto di saper disegnare molto bene. Quello che dà fastidio a Briganti sono forse le parole. Se le levassi mi trasformerei automaticamente da fumettista in incisore? ».

Crepax prosegue riportando la polemica a quello che è: una questione non tanto di merito, ma di legittimazione del mezzo. E fa un esempio a lui caro, ovvero quello del jazz:

Quanto al discorso generale dei fumetti in galleria dice: « E’ come quando Louis Armstrong suonò per la prima volta alla Carnegie Hall. Un jazzista nel tempio della musica, che scandalo. Non voglio certo fare paragoni fra e, mettiamo, Strawinski, ma mi sembrarono due persone che potevano convivere, così come fumetto e arte”.

Il giornalista torna quindi alle parole di Fagiolo, che afferma con chiarezza la pertinenza del fumetto tra le arti visive:

Secondo Maurizio Fagiolo dell’Arco, professore di storia dell’arte e critico del Messaggero « dire che Crepax fa storie a fumetti è come dire che Lichtenstein copia le strips o che anche Warhol ruba fotografie ». Nei suoi fumetti Fagiolo ha colto citazioni continue: Godard e Ronchamp, Mendelsohn, le poltrone di Thonet, la scrivania di Van de Velde, Yves Klein e Max Ernst. Per quanto riguarda l’equazione fumetto-arte, non ha dubbi: « In galleria o meglio al museo dovrebbe avere diritto d’ingresso tutto quello che è immagine. C’è entrata la fotografia, l’architettura, la danza, il cinema, l’happening, il teatro, il videotape. Anni fa c’è entrato un cartoonist come Steinberg poi Siné e Folon. Perché oggi abbiamo paura del Crepax cattivo?”.

Giovannini chiude quindi facendo ricorso a un altro testimone – Oreste del Buono – e al ‘dato’ della salute artistica del fumetto, testimoniata dall’opera di un gruppo di altri grandi autori nazionali:

Malgrado la presa di posizione di Briganti (che secondo Oreste Del Buono, direttore di Linus, ci riporta indietro di mezzo secolo, “quando l’arte era arte e i critici ne erano i custodi sacri: se Crepax non è arte, è forse arte Briganti?”) la scalata del fumetto verso una maggiore considerazione artistico-culturale sembra inarrestabile. Oltre all’ incriminato Crepax, fra gli italiani hanno già fatto mostre Alfredo Chiappori, Pericoli e Pirella, Dino Battaglia, Hugo Pratt, Guido Buzzelli. […]

E’ il maggio del 1976, e in un mese una mostra dedicata a un fumettista, allestita in una galleria ‘di tendenza’, ha scatenato una polemica lanciata da un quotidiano e smontata da un settimanale. Una fiammata polemica che ha coinvolto figure non secondarie della cultura artistica italiana, e che si chiude rapidamente – almeno nei media mainstream (e qui si apre lo spazio per ulteriori ricerche: se ne ebbe qualche eco sulla pubblicistica dedicata all’arte?).

Forse era inevitabile che si trattasse di una breve fiammata: è il 1976, e un simile scontro arriva per certi versi fuori tempo massimo. Anche in Italia gli spazi per le polemiche sulla ‘legittimità’ del fumetto si sono ormai ridotti. E per un’analoga intemerata – un secco rifiuto della legittimità del fumetto nel campo dell’arte – non si ripresenteranno più canali della stessa portata.

A distanza di circa 25 anni, Maurizio Fagiolo dell’Arco tornò su quell’episodio – il suo ‘gesto critico’ e la reazione di Briganti – in un testo apparso nel catalogo della mostra “Crepax e le Arti” (Fondazione Bandera per l’Arte, Busto Arsizio, 2002), curata da Alberto Fiz, al quale si rivolse direttamente, così:

Ti confesso che potrei sottoscrivere quella analisi […] E’ proprio vero, Crepax fa un discorso sul discorso, una analisi sull’analisi, si pone davanti alla comunicazione chiedendosi prima di tutto perché si comunica e, in un secondo tempo, come si comunica. Ecco perché lo paragonavo a artisti concettuali o analitici […]

ricordo l’incontro (o gli incontri) con Guido a Milano […]. Ricordo che quel colloquio (o quei colloqui) mi hanno insegnato molto di più dei saggi dei cosiddetti critici d’arte di allora. I quali, spesso, soprattutto quelli che ai tempi miei si definivano “militanti”, si rivelano insopportabili generali alla guida di eserciti inesistenti, cinici lanciatori di coltelli (pardon, di artisti) destinati a durare l’espace d’un matin, idolatri del proprio cervello, bambini vogliosi di adattare le proprie idee nane al lavoro di malcapitati passanti.

Ma torniamo al nostro tema. Penso che Guido Crepax sembri oggi quasi un teorico della ricerca sul linguaggio, un professore dell’avanguardia. Sempre di più. Mi fece un po’ rabbia (e poi molta tenerezza) lo scritto di un amico che apparve in quei tempi su un lettissimo giornale del mattino: amabilmente mi tirava le orecchie spiegando l’inopportunità di una esposizione di opere di Guido Crepax accanto a quadri di Emilio Tadini (lavoravo allora per la Galleria Rondanini che ha lasciato qualche segno alla metà degli anni Settanta): “confusione dei valori” era l’epilogo accorato. […]

Caro Giuliano, quanto faticavi a scrivere i tuoi articoli sull’arte moderna (io stesso sono testimone di giornate di sudori volonterosi). E quante paure ti assalivano: proprio tu che avevi saputo annettere al campo dell’arte territori mai frequentati o ritenuti off limits come il manierismo e il vedutismo…

Il bello di quell’articolo è che si conclude con una censura sulla moda (così parlò Giuliano) della fotografia e delle mostre fotografiche. […] Anche allora, caro Giuliano, non resistevi (tu che eri un maestro vero) alla puntatina da maestrino della penna rossa: “La moda delle mostre fotografiche contribuisce alla confusione dei valori”.

Mi riportavano ad altri tempi quelle censure preventive. A quando un pittore osava cimentarsi col manifesto e non veniva considerato pittore (Henry de Toulouse Lautrec). A quando Picasso o Braque scomponevano l’immagine e venivano per disprezzo chiamati “cubisti”. A quando i Surrealisti includevano nel quadro materiali estranei au dela de la peinture e venivano bollati di avventure extra artistiche. Proprio come i loro colleghi rei di collaborare con i Ballets Russes di Serge de Diaghilev (ma via, siamo seri, la scenografia non è confusione dei valori?).

Che dire, oggi che le avventure oltre la pittura sono ben altre, e molto più banali e tanto più presuntuose di allora? Si può concludere che tutto è relativo, che quella inclusione del fumetto o della fotografia nel campo dei Valori dell’Arte appariva ben poco trasgressiva (vista almeno col senno di poi). Una innocente deviazione che poteva permettere di conoscere meglio la strada del linguaggio (pardon, dei linguaggi) dell’arte. […]

Le parole di Fagiolo suonano oggi tanto corrette quanto ovvie. Parole banali non sempre, non per tutti, ma sufficienti a ricordare come il livello del dibattito critico – sulla rilevanza di Crepax, e sulla pertinenza del fumetto tra le arti – da allora abbia fatto parecchi passi avanti.

Tuttavia, la critica d’arte italiana ha ancora parecchie difficoltà a confrontarsi con il fumetto. Lo dimostrano casi come quello che ho raccontato su questo blog qualche tempo fa. E paradossalmente, forse, è l’assenza di vere e proprie polemiche – sebbene meno magniloquenti o ‘legittimiste’, e più focalizzate – che oggi dovrebbe continuare a farci riflettere.

Quando su Crepax si scontrava la critica (1 di 2)

Tra gli aspetti poco indagati del fumetto italiano, sarebbe interessante ricostruire – prima o poi – le vicende delle principali polemiche critiche.

Per “polemiche critiche” non intendo solo i casi in cui il fumetto è stato oggetto di dibattiti di natura politico-istituzionale, già inclusi (anche se di rado) nella storiografia sul mezzo. Ad esempio, la serie di interventi con cui nel 1950/51, tra le aule del Parlamento e le pagine della rivista “Rinascita”, si affrontarono Palmiro Togliatti, Nilde Jotti o Gianni Rodari, intorno all’idea di una “influenza nefasta” (parole della Jotti) del fumetto, alimentata da concetti vecchi (semplificazione dei linguaggi, rappresentazione della violenza) e nuovi (l’accusa di “americanismo”).

Molto meno note o ricordate sono invece le polemiche interne al dibattito propriamente culturale – letterario e artistico in primis – che hanno visto contrapporsi intellettuali, autori, artisti, studiosi su questioni di natura estetica o linguistica. Non molte, per la verità: anche questo, forse, un tratto peculiare della cultura italiana del fumetto, tanto ricca quanto sconnessa – salvo poderose eccezioni (Eco, Fellini, Vittorini) – dalla ‘normalità’ del dibattito critico-intellettuale.

Quale che sia la vicenda complessiva di queste polemiche, un posto non secondario riveste quella che, nel 1976, si svolse intorno al lavoro di Guido Crepax. Il critico d’arte della allora giovane testata La Repubblica, Giuliano Briganti, scrisse una recensione alla mostra di disegni di Crepax allestita dalla galleria romana Rondanini. Una mostra curata da un altro noto storico dell’arte, Maurizio Fagiolo dell’Arco, nello stesso contesto che in altre sale esponeva quadri di Emilio Tadini. Per presentare Crepax, in un testo – pubblicato nel 1975 a corredo dell’edizione Franco Maria Ricci di Histoire d’O, e riproposto in quella occasione dalla rivista della galleria “R” nel n. 3 – Fagiolo ne aveva paragonato i lavori a quelli di artisti concettuali o analitici come Giulio Paolini e Ugo Mulas.

Una nota. Il mio scopo, qui, è più nel riportarla alla luce che non nell’analizzarla. Tranne alcuni, brevi commenti qua e là. Ma nonostante questo, il testo è tanto: mi ci vorranno due post.

In quell’intervento il critico si era espresso in termini elogiativi, argomentando in modo opportuno e con una sensibilità – almeno al nostro sguardo di oggi – decisamente centrata:

Da qualche anno, tramite riviste e libri di evasione (apparentemente), Crepax fa un lavoro molto chiaro: un discorso sul linguaggio della comunicazione condotto con gli strumenti stessi della comunicazione. Era lo stesso discorso che a Milano, da un altro versante, faceva Ugo Mulas, la cui operazione (tautologica, analitica) del linguaggio fotografico ha richiesto molto tempo per venire accettata come parte integrante del campo dell’arte visiva. Spero che questo testo d’uno storico dell’arte non venga preso come “ludus criticus” ma come la seria proposta di considerare un lavoro “estetico” anche quello di Crepax.

Il primo argomento di Fagiolo: quello di Crepax è un fumetto che va inteso come discorso sul suo stesso linguaggio. Un fumetto riflessivo.

Dunque, vorrei dire che Crepax sta facendo da anni, sia pure con gradevole ironia, una operazione analitica: la stessa che fanno i giovani artisti che ci interessano (Paolini o Agnetti o Griffa), la stessa che fa De Chirico quando ritrova il se stesso di sessant’anni fa e auto-analizza il suo linguaggio del tempo perduto. Prima di raccontare storie anche avvincenti (Crepax fa un discorso realista e popolare molto più di tante “storie” e di quadroni tre metri per tre), porta avanti una sottile ricerca sul suo linguaggio specifico. […]

Crepax racconta cose non d’après nature ma, lavorando già su un mass medium, tramite i mezzi di comunicazione. Si spiega quindi lo spreco nelle sue pagine di hasselblad e nikon, kodak e cineprese: ogni immagine è un clic del diaframma, la pagina è una sequenza di scatti, perfino un foglio di “provini”. […]

L’immagine di Crepax è sempre “al quadrato”, non fine a se stessa, ma immagine sull’immagine. Dire che fa storie a fumetti è come dire che Lichtenstein copia le strips o che Warhol ruba fotografie. Avrà pure un senso il suo start come architetto e designer: e quindi il suo bagaglio di cultura visiva. A livello letterale si ritrova la citazione di Ronchamp o della Einsteinturm di Mendelsohn, delle splendide poltrone di Thonet o della scrivania di Van De Velde. A un livello più profondo, si trova la nascita di certe vicende come la donna dipinta che lascia la sua impronta (da Yves Klein), come la donna suppliziata (da Max Ernst).

Ma il critico non si ferma solo al tema dell’autoriflessività, del fumetto “al quadrato”. Ed entra nel merito, descrivendo il territorio sul quale questa riflessività si esercita. In un passaggio particolarmente condivisibile e azzeccato, Fagiolo analizza il linguaggio crepaxiano evitando di cadere nel tranello dell’analogia cinematografica, che tanto spesso ha condotto fuori strada i suoi esegeti (in un caso emblematico del cinema-centrismo che ha afflitto la fumettologia novecentesca, su cui mi sono soffermato qui). E giunge così, attraverso l’analisi di uno dei suoi grandi interpreti, a riflettere più specificamente sulle ‘proprietà’ del fumetto. Ovvero, sulla sua dimensione spaziale:

Ma c’è qualcosa di più. Crepax non fa sequenze di stripes, ma disegna la sua pagina (anzi, la doppia pagina) come un tutto unico: come un architetto progetta la pianta più funzionale per un edificio. La pagina è uno spazio di cui riappropriarsi, al modo di Mondrian o di Van Doesburg (nelle strisce in diagonale): e quindi si spiega la variabilità di spazi per ritrovare il tempo in un solo regard.

Niente comparazioni col “montaggio analitico” nel cinema ejzenstejniano, che in quegli anni andavano per la maggiore (in testi come, per esempio, il fortunato El lenguaje de los comics di Roman Gubern, del 1973): Fagiolo individua in Crepax le forme dell’arte post-figurativa. Un paragone assai più rilevante, per un artista in cui la composizione opera non sul piano delle relazioni tra singole vignette (‘sequenze di stripes’), ma sul piano dell’architettura generale della pagina, in grado di definire uno specifico sistema di relazioni tra di esse. Proseguiva Fagiolo:

Molte volte lo spazio è regolare (perfino con sezioni auree), più spesso irregolare in senso “psicologico”: ecco la pagina tessuta come una tela di ragno, ecco la pagina tutta di piccoli quadratini che trasmette il senso accelerato del tempo e del racconto, ecco la pagina rotta come un vetro dipinto, ecco la pagina in positivo che ha di fronte una pagina in negativo. […]

Il discorso è semplice: il fumetto è da sempre il caleidoscopio spaziale di fatti temporali. Crepax lavora nella lama di rasoio tra lo spazio e il tempo, non secondo la grande illusione di Cubismo e Futurismo, ma con nuovi accorgimenti. Ecco le stripes che ritrovano un’immagine archetipa dello spazio-tempo, i fotogrammi pre-cinema di Muybridge; ecco la pagina intera in cui l’immagine si attorciglia sinuosa su se stessa (l’archetipo serpente che si morde la coda); ecco la pagina composta in forma di calendario, la più moderna immagine del tempo.

Ecco il tempo della televisione (Anita): il processo tv non è altro che una sequenza di linee che aggregandosi spazio-temporalmente restituiscono l’immagine. Ecco il punto di vista: il sottinsu accelerato per esempio, o la stessa immagine (la prima pagina di “il bambino di Valentina”) vista contemporaneamente da tutte le angolature. Ecco due quadrati che ricompongono il volto di donna, ma indicano due tempi diversi; e al contrario ecco l’immagine unica (per esempio il corpo di donna suppliziata) composta in cinque stripes come un montaggio di foto alla Magritte. Ecco la piena pagina che è la rappresentazione dello spazio unico. Ecco il sistematico frammento (in Histoire d’O) dell’immagine in un terzo di pagina: concentra un accavallamento spazio-temporale, un collage di momenti diversi, un coito di strips.

E arriviamo alla polemica.

Assistendo alla mostra, e leggendo in quell’occasione questo testo ritornato disponibile, Giuliano Briganti – all’epoca uno dei massimi esperti di arte Barocca – ne scrisse una violenta, inappellabile stroncatura. Il pezzo, che occupava mezza pagina della sezione del quotidiano – allora assai intellettuale (ancora privo delle pagine sportive, per capirci) – iniziava prendendo la questione alla lontana, così:

INDISCRIMINAZIONE: la parola non è bella e la cerchereste invano nel dizionario della Crusca o del Tommaseo. Ma così come l’ha divulgata la psicologia analitica, è sulle labbra di tutti e, d’altra parte, non saprei trovarne un’altra più nobile che, nello stesso tempo, fosse altrettanto adatta a caratterizzare quella che mi sembra una delle costanti primarie della situazione culturale odierna.

Perché indiscriminazione vuol dire disconoscimento dei valori, e non di questo o quel valore ma della loro stessa esistenza determinante, vuol dire abdicare alla facoltà di giudizio, tradire il dovere  di scegliere, di partecipare, di conoscere e di distinguere. E vuol dire anche rinunciare ad amare, o sostituire all’amore una ritualità mistificatoria, perché amare è tutte queste cose insieme: scegliere, partecipare, conoscere e distinguere, credere nel valore.

Senza troppi freni, la premessa di Briganti si allungava con (notevole) prosopopea:

Non voglio soffermarmi ora sulle origini dell’odierno dilagare dell’indiscriminazione che, fra l’altro, può imputarsi forse anche al fatto che abbiamo scherzato e continuiamo a scherzare troppo proprio sui valori e sui significati, ricalcando alla lettera i modelli di un antico scherzare che era nato però come sacrosanta e creativa reazione ai massacri perpetrati in nome delle idee ricevute, come legittima lotta contro i falsi valori, la quale lotta portava con sé.

Il ragionamento prosegue con una tirata sulla critica scriteriata, definita “elettrodomestica” ovvero “tuttofare”, e – ben oltre la metà del pezzo – giunge infine al cuore della stroncatura, con i suoi contro-argomenti:

So che una lavatrice è molto utile ma che altrettanto non può dirsi di quel genere di critica tuttofare o elettrodomestica cui ho accennato. La quale può portare anche al disastro di prendere per buoni i disegni di Guido Crepax esposti a Roma in questi giorni alla bella galleria Rondanini.

Questo banalissimo disegnatore di fumetti, dotato di un’abilità davvero lugubre, che confondendo erotismo con onanismo offre ai giovani inesperti liceali in fregola un cocktail di Playboy, Crazy Horse, donnine art déco e suppellettili falso floreali, che crede di toccare le punte più alte del sadomasochismo disegnando lividi e staffilate sui culi longilinei delle sue Valentine o col particolare di una frusta fra le mani adunche, naturalmente, di un vecchio signore con la camicia a pizzi, resti nelle edicole di via Veneto, dove sta benissimo, e lasci perdere le gallerie. Dove davvero non c’entra o almeno non dovrebbe entrare, nonostante possa fregiarsi di attestati di Alain Robbe-Grillet o di Roland Barthes. O, mi perdoni, dell’amico Maurizio Fagiolo dell’Arco. Al quale vorrei chiedere, senza che si arrabbi, come si può mettere sullo stesso piano Crepax e un artista serio e pensoso come Giulio Paolini. E spiace che questa mostra di disegni, frequentatissima da liceali in fregola, si accompagni a quella ricca d’impegno di Emilio Tadini […]

Gli argomenti chiave della sua stroncatura non sono troppo numerosi, ma sono chiari e, per certi versi, “di fondo”. Due riguardano direttamente Crepax:

  • la sua discutibile abilità nel disegno
  • il suo sfruttare semplici pulsioni adolescenziali

Un argomento, invece, è rivolto più alla critica e, sullo sfondo, alla società che la alimenta e amplifica:

  • la “confusione di valori” che hanno permesso un indiscriminato accostamento tra Crepax e artisti ‘seri’

Infine, il quarto. Che non è più un vero e proprio argomento. Piuttosto, una nitida, sintetica quanto drastica invettiva :

  • l’inappellabile giudizio di non-artisticità. Di cui l’invito a riconsiderare la presenza di Crepax nei contesti istituzionali (galleristici) dell’arte ne è una perfetta – e classica – rappresentazione plastica.

E questo è quanto. Ovvero, per quanto sono in grado di ricostruire al momento, il più duro e diretto attacco rivolto in Italia a un singolo fumettista. Lanciato peraltro dalle pagine di una testata importante e di crescente influenza, all’epoca, nel mondo della cultura.

Una polemica fondata su quattro – o meglio, tre – argomenti. Che generò una ulteriore eco nelle settimane successive, sulle pagine di un’altra testata rilevante: Panorama. Ma questa ve la mostrerò nel prossimo post, domani.

Il solito problema: recensire fumetti (mytici)

Qualche giorno fa ha debuttato, in allegato al Corriere, una delle novità fumettistiche più attese degli ultimi mesi: Mytico!

L’attesa era naturalmente per la novità del contesto produttivo: che il primo quotidiano italiano, editore (c’era una volta…) del settimanale più importante nella storia fumettistica nazionale, si decidesse fare il passo dal puro licensing alla produzione, è già in sé una notizia. Una di quelle che, prima ancora di entrare nel merito del prodotto, meritano certamente attenzione.

Registro che la prima reazione da parte di chi abitualmente segue e commenta questo genere di prodotti (la “stampa specializzata”, diciamo) non è stata troppo positiva: mixed feelings, direi. A voi la misurazione in Rotten Tomatoes:

  • Un “buon fumetto popolare senza pretese” (Mangaforever)
  • una “scommessa vinta” con qualche distinguo sulla lingua (Comicus)
  • un “buon punto di partenza” (House of mystery)
  • un’inappellabile e stroncante “fallisce il suo obiettivo fin dall’ideazione” (Conversazionisulfumetto)
  • e un “senza dubbio coraggiosa – malgrado i miei dubbi” (Mangaforever).

Nel complesso, per quanto può valere un’approssimazione del genere – e ad oggi – sembra di vedere una canonica ‘sufficienza risicata’ (nei voti di Mangaforever: 6 e 6,5).

E comunque, vorrei parlare d’altro. O meglio vorrei per un momento lasciare da parte il giudizio di merito sul prodotto (pessimo? so-and-so? buono?). E occuparmi delle reazioni stesse. Perché quel che mi ha più sorpreso nel ‘caso’ Mytico, finora, è stata la scarsa qualità non tanto del prodotto, ma delle sue recensioni.

La più banale delle premesse: non ne faccio una questione né personale (gli estensori delle recensioni) né di testata. Ma il contenuto di molte fra quelle recensioni mi è parso così sorprendentemente privo di argomenti, da renderlo un caso su cui spendere qualche parola. Perché Mytico! sembra essere stato, almeno finora, un catalizzatore – ‘epico’? – della sciatteria dilagante nella critica fumettistica (online) italiana.

Per privo di argomenti mi riferisco ad alcuni passaggi, per esempio, di questa recensione:

ha una forte carica sperimentale che lo rende interessante, tuttavia il risultato finale non appaga completamente il lettore.

“Carica sperimentale”. Da lettore, di fronte a questa affermazione, drizzo le antenne, e mi dispongo ad ascoltare. Per capire. Perché sapere che Mytico – non l’ho ancora letto: dovrei? – abbia una forte carica sperimentale può darmi una ragione per acquistarlo o, semplicemente, può essere la premessa a un discorso da seguire, un ragionamento con cui confrontare le mie aspettative, le mie idee. Mi dispongo ad ascoltare, eppure – eppure il testo non mi segue. Non mi vuole aiutare. Quali informazioni, quali frasi, quali parole dedica la recensione per indicarmi – farmi ‘capire’ – che siamo di fronte a un caso sperimentale? Nessuna. L'”idea di sovrapporre mitologia e comics”, frase seguente della recensione, che mette così sul piatto un altro tema degno di ascolto, “è una scelta che rende il prodotto appetibile per un pubblico giovanile”. Certamente: questi ‘eroi mitologici’ sono rivolti a bambini/ragazzi. Bene, è un fatto. Non del tutto nuovo, a voler dire bene, ma un fatto. La domanda iniziale, nel frattempo, rimane aperta: la “sperimentazione”, invece, in cosa consisterebbe? Forse lo sapremo un’altra volta. O da altri testi. Forse. Chissà.

dinamica sceneggiatura di Ascari che, da un lato, ha il merito di non annoiare

Posto che siamo di fronte a un fumetto d’azione (è il suo contenuto principe), parlare di sceneggiatura è passare dai contenuti alla tecnica/stile di scrittura. Per chi legge una recensione su una testata specializzata, un ottimo tema, in grado di soddisfare le aspettative di chi dalla ‘specializzazione’ si attende come è ovvio una discussione più ‘tecnica’, approfondita, con dettagli o ‘retroscena’ inappropriati sulla stampa generalista – per ‘specialisti’ che vogliono, appunto “qualcosa di più”. E qui, posto che sia legittimo distinguere fra stili statici e stili dinamici, piacerebbe sapere a cosa si riferisce questo giudizio sul ‘dinamismo’: ritmo? cambi di scena? inquadrature? La domanda rimane aperta: in cosa consiste una sceneggiatura “dinamica”? Forse lo sapremo un’altra volta.

Buona la prova grafica di Riccadonna che dimostra, tra l’altro, una certa originalità nella composizione delle pagine.

Innanzitutto un mistero: quel “tra l’altro”. Se oltre al layout c’è dell’altro, di cosa si tratta? E perché lasciarlo nel non detto? Il punto cruciale della valutazione sulla componente visiva, poi, è un’altra non-argomentazione: “composizione originale”. Perché da lettore mi aspetterei che le parole seguenti fossero destinate a questo, ovvero a fare capire anche a me le ragioni per cui qualcuno (il recensore, o io) potrebbe parlare di ‘originalità’. Ma anche qui il testo si ferma, non offre alcun elemento, e a chi legge non è dato capire se si tratti di un’originalità generale e assoluta (su cui parrebbe ovvio dubitare, col risultato di squalificare la recensione: enfasi fuori dalla realtà), o piuttosto di un’originalità rispetto a qualche termine di paragone. Peraltro inespresso. Altra domanda senza risposta: in cosa consiste questa “originalità compositiva”?

In un’altra recensione, un brano recita:

è evidente che l’autore intende essere il più popolare possibile (e non è un male) ma i testi mi paiono troppo semplici e la trama esile e avrei preferito maggiore profondità ma dopotutto questa iniziativa è rivolta ad un pubblico pre-adolescenziale.

Questa “evidente volontà di essere popolare” è un argomento che, di evidente, ha la tautologia. Come Tex Diabolik Topolino, questo è un fumetto popolare. Non è un’opera di avanguardia, o di ricerca. Lo sappiamo: è il Corriere. Dunque cosa vorrebbe dirci quell’ “essere più popolari possibili”? ‘Più possibile’ di cosa? E l’argomentazione si risolve in un avvitamento logico: essendo il target preadolescenziale… un autore non può che essere ‘troppo semplice’ e produrre ‘trama esile’; essendo il target preadolescenziale … un autore può voler essere più popolare (che è un bene), ma alla fine mica basta. Tradotto – con fatica – potrebbe suonare così: un fumetto popolare per ragazzini, “dopotutto”, non permette quel che qui si contesta. Una sciocchezza risibile, naturalmente, ma che si fonda su un’equazione tanto stereotipata quanto preoccupante, se praticata da chi “scrive di fumetto”: volenti o nolenti, fumetto popolare per bimbi = scarsa qualità. Un “dopotutto” che posso aspettarmi da sir Harold Bloom o da un professore di greco del liceo, ma che qui – la stampa specializzata, ovvero il bacino potenziale del migliore know-how – fa francamente impressione.

Il disegnatore fa un buon lavoro, riuscendo a caratterizzare visivamente ogni personaggio

Un disegnatore che riesce a caratterizzare visivamente i personaggi. Chi l’avrebbe mai detto. Una rarità, considerato quanti disegnatori non lo facciano, usando abitualmente stampini per riprodurre le medesime fattezze in più vignette possibile. O forse si voleva alludere ad altro: tutti i disegnatori sanno caratterizzare personaggi, ma questi sono stati particolarmente bravi. Queste caratterizzazioni hanno elementi di particolare valore, voleva dire: sono particolarmente ‘riuscite’. E questo potrebbe anche essere. E da lettore, mi dispongo ad ascoltare. Senza ottenere risposta, tuttavia: costoro sì che sanno caratterizzare… ma non si fa (sa) dire il perché. Altra domanda senza risposta: quali sarebbero gli aspetti di particolare cura o efficacia?

Insomma, mi fermo qui.

Peraltro scusandomi, per la pedanteria inevitabile di una simile discussione. Rimane però la sensazione, sconfortante, che queste recensioni dicano poco, o niente, del fumetto in questione. E che questo caso meriti almeno un poco di indignazione, come il mio post cerca di rappresentare. In modo un po’ piagnino, lo ammetto: mi perdonerete, ma così accade quando lo sconforto scocca intorno a casi che coinvolgono professionisti che stimo, e su tutti i fronti (il prodotto; le testate di queste recensioni; e la schiera di chi, giornalisti autori editori, va lamentandosi – chi in pubblico chi in privato – dell’uno come delle altre).

Vorrei allora ribadire una banalità.

Non c’è un modo di scrivere rencensioni, anzi. Anche in 500 battute. Ma ciò a cui servono è offrire informazioni (per presentare l’opera) e argomenti (per capirla/spiegarla/commentarla) – e qui ci sono informazioni, ma non argomenti.

Gli stessi autori e editori di fumetto popolare, sono tra le vittime di questa sciatteria. Perché se è vero che il “purché se ne parli” è un principio importante, la pochezza degli argomenti è una magra consolazione. Se una misura del riconoscimento e della crescita professionale, da sempre e in ogni campo, sono i discorsi che ne fanno i pubblici – indifferenziati (i lettori) o qualificati (la critica e i ‘pari’) – gli autori più motivati e consapevoli sono i primi a sentirsi sviliti dalla pochezza degli argomenti portati a loro favore (ma anche a disfavore): capire cosa si è fatto dalle opinioni altrui è normale, utile, proficuo. Ma se quel che si riceve è poco o nulla, coperto da una coltre di banalità e interesse fermo alla superficie (o, peggio, venato di adulazione), sono autori ed editori stessi a uscirne demotivati. Depauperati del valore – percepito o reale che sia – del proprio contributo.

A meno che… queste non siano altro. Non recensioni. E forse è proprio così: non sono recensioni, perché i loro testi promettono ma non mantengono l’obiettivo di discutere nel merito il prodotto. Sono altro. Segnalazioni, ‘brevisioni’ come le etichetta con accortezza uno di questi siti. Ma allora la domanda è duplice: 1) perché ostinarsi a chiamarle recensioni? e 2) cosa aggiungono, queste forme giornalistiche, ai lanci stampa?

Una sommaria risposta alla domanda 1) è che, nella prassi di chi progetta questi testi, c’è una “retorica della recensione” senza la recensione medesima. Una sorta di apirazione alla recensione. Ma senza il metodo, il mestiere, le “regolette”. E’ quello che in modo un po’ pomposo potremmo chiamare il “lato oscuro del fandom”. Ovvero quei casi in cui, per svolgere la propria (sana, e preziosa) missione di evangelizzazione culturale, invece di sfruttare la libertà di un contesto de-strutturato, lontano dai bisogni della produzione di comunicazione sottoposta alle regole del commercio (si pensi alla straordinaria energia dei collezionisti e dei loro database, dei loro raduni, di certa fanfiction, di tanto cosplay…), il fandom si confina nelle forme più ‘scolastiche’ del giornalismo e della critica, senza però darsi regole e buone prassi da usare come modello. Col risultato di praticare una critica che è più formulaica che sostanziale, più nelle intenzioni che nei risultati.

Una risposta alla 2) è che l’efficacia di questi testi ha a che vedere con la tendenza alla promozione del consumo tipica del giornalismo fandom-oriented (ne parlai tempo fa, qui). Ma in realtà con una visione parziale di questa stessa promozione: un fan-giornalismo acritico che abdica alla propria funzione, ovvero – rispetto alle proprie aspirazioni: promuovere il ‘buon’ fumetto popolare e non – rinuncia a un’interazione con prodotti/produttori fatta di richieste e pretese, stimolo e suggerimento, confronto e sane litigate. Portando argomenti, dettagli, temi, idee, ambizioni trasformative più o meno sensate. Come qualcuno ancora fa, per fortuna: penso all’eccellente blog Docmanhattan, forse il più compiuto esempio di fan-journalism di qualità nel 2011; o al sito verticale dei fans di Dylan Dog, DDComics. Una visione che invece fatica a trovare rappresentanza nei pur tanti webmagazine generalisti ‘dal basso’ che si limitano a piccole segnalazioni, comunicati e notiziole, recensioni stringate quasi solo descrittive e, non a caso, quasi sempre morbide come una carezza (nei rari casi in cui invece ‘mordono’, peraltro, rischiando di diventare vittime di una sciatteria opposta e contraria: le reazioni piccate o persino minacciose di alcuni editori/autori). Una critica amatoriale – come si diceva negli anni 70/80 – o un fan-journalism che, rispetto a campi come tv e videogiochi, insomma, pare vivere una fase di profondo sfarinamento, se non una vera e propria crisi motivazionale e aspirazionale.

E allora quel che dispiace è anche che ciò avvenga, in questa occasione, in un campo – la stampa specializzata italiana – che dopo decenni (esagero: dai ’60 ai ’90) spesso all’avanguardia in termini di qualità argomentativa e critica (da Linus a Sgt. Kirk a ilFumetto a Fumo di China a L’Urlo a Schizzo), pare vivere una fase poco felice. In cui la rete ha portato nuove opportunità (quantità, libertà di temi, formule e registri) ma anche nuove schiavitù (quantità, rapidità, sciatteria).

Non solo: dispiace tanto più quanto il caso di Mytico!, prodotto popolare che potrebbe avere ragionevolmente già superato le 50.000 copie, avrebbe meritato da chi presiede il territorio dell’informazione sul fumetto con impegno costante, quotidiano, energie critiche quantomeno proporzionate all’occasione. In un’Italia che, pur ricca oggi di spazi online dedicati alla discussione sul fumetto indipendente, d’autore, di nicchia, sorprende per la sempre cronica assenza di discussioni altrettanto attente sul fronte del fumetto popolare, Bonelli, Disney – o Mytico! – in primis. A favore o contro che sia.

Il dibattito sulla salute della critica sul fumetto – anche popolare – in Italia, che periodicamente torna a scatenare confronti, piccoli buriana, difese d’ufficio e una discreta produzione di alibi, è uno di quei (relativi) bisogni che casi come questo ci ricordano: c’è ancora bisogno di lavorare un sacco, per elevare la qualità dei discorsi sul fumetto dalla superficialità. Inclusa quella di certe sue recensioni.

Il fumetto è di centro-destra (o: Alan Moore su Frank Miller)

Non si è sottratto, Alan Moore, alle domande a proposito dello “spericolato” intervento del collega Frank Miller sul movimento Occupy. Ne ha discusso qui, in un’intervista ampiamente rilanciata dai media americani, con affermazioni del genere:

Frank Miller è una persona il cui lavoro ho a malapena seguito negli ultimi venti anni. Ho pensato che tutto il suo Sin City fosse irrimediabilmente misogino, e 300 sembrava selvaggiamente a-storico, omofobico e del tutto sbagliato.

e come:

Penso che Occupy sia, in un certo senso, l’opinione pubblica che dice che dovrebbero essere loro a decidere chi è “too big to fail”. E’ un urlo del tutto giustificato di sdegno morale, e sembra essere gestito in modo molto intelligente, non violento, il che è probabilmente un altro motivo per cui Frank Miller ne è ben poco soddisfatto.

oppure – e questa è niente male (peraltro discutibile, imho. Anche se richiederebbe di entrare nel merito di cosa è “centro” o “destra” secondo Moore):

Mi è sempre sembrato che la maggior parte dell’ambiente del fumetto, se si dovesse collocarlo politicamente, si dovrebbe dire che sta a centro-destra.

Ma questi non sono che alcuni estratti. Altro troverete nella conversazione integrale, certamente interessante. Poi beh, c’è da fare la solita tara: il nostro gioca sempre a fare il guru (“We are culture. Just ordinary people, what they do.”).

Peraltro, questa intervista alza l’asticella delle aspettative rispetto al work in progress Jerusalem, che Moore ritiene il suo migliore lavoro fino ad ora.

Ma il dato più interessante mi pare un altro: da tempo non si assisteva ad un confronto così aperto intorno alle visioni politiche di due grandi protagonisti del comicdom americano. Altro che Morrison/Millar. Verrebbe da pensare: quand’è che qualcuno si impegnerà per mettere insieme Art Spiegelman e Alan Moore in una bella conversazione congiunta?

Infine, news. Con la notizia tanto (ehm) attesa da curiosi e appassionati milleriani. Ovvero: l’edizione italiana del suo ultimo libro uscirà a marzo, per Bao Publishing, intitolata Sacro Terrore. E così sia:

PS   Però non dite che, qui o altrove, non siete stati stra-avvisati. Se proprio vi manca un’opera di Miller, ve lo ripeto: acquistate pure … Ronin.