Il PD e il grafigioco del balloon

Le elezioni regionali si avvicinano. Le campagne di comunicazione dei partiti proseguono. Riprendiamo allora il discorso sulla campagna del Partito Democratico. Dal mio parzialissimo punto vista: l’uso del balloon.

In questa campagna il PD sta facendo del balloon un elemento distintivo di comunicazione. E’ presente, infatti, sia nei supporti online che in quelli offline. Ma le strategie d’uso del balloon continuano ad essere contraddittorie, e spesso del tutto fuori fuoco. Il nodo è presto detto: con ostinazione, la campagna di affissioni travisa (o dimentica) la natura comunicativa dello speech balloon, riducendolo-  da oggetto comunicativo dotato di specifici significati: dialogo, parola, pensiero – a mera cornice grafica, dotata solo di una funzione decorativa.

Dopo la campagna multisoggetto con i “volti degli italiani”, è apparso un altro manifesto che ritrae Bersani:

In questa immagine l’uso del balloon è più corretto: la nuvoletta indica solo una persona (e non un “logo parlante”, unito a un “post-it facciale”, come nella multisoggetto), e pare quindi più coerente con la funzione di speech. Ci sono tuttavia due ulteriori limiti, nella figura di Bersani e nella forma del balloon. Da un lato lo speech balloon non andrebbe mai associato a un soggetto evidentemente muto, ma ad uno ‘parlante’ (per capirci: bocca aperta o semiaperta). Dall’altro se il soggetto non sta parlando ma semplicemente pensando, l’oggetto grafico in questione dovrebbe essere diverso, ovvero un “balloon di pensiero”: non una bolla ovoidale, ma – come è noto a qualunque grafico abbia sfogliato Topolino o Tex una volta nella vita – una nuvoletta collegata al soggetto attraverso una catena di nuvolette più piccole. Le convenzioni con cui si distinguno speech balloon e thought balloon sono codificate e consolidate al punto da essere perfettamente descritte persino da Wikipedia.  La contraddittorietà o ambiguità di una simile strategia grafica lascia quindi irrisolta una questione cruciale: Bersani starà parlando o, invece, sta semplicemente pensando? Portando alle estreme conseguenze il ragionamento, provo a esplicitare il dubbio (comunicativo) che si genera nello spettatore comune: si sta rivolgendo a me (mi “racconta” un concetto chiave), o sta pensando per i fatti suoi (si “immagina” una frase-slogan)? Non un dubbio da poco, in politica.

Ma andiamo oltre. E guardiamo all’oggetto comunicativo più recente e curioso, figlio di un’idea che i pubblicitari avranno di certo chiamato “virale”: il divertente e parodistico video del Mago Pidiello. Osservate come si chiude:

Anche qui, torna il balloon. Che contiene tre frasi chiave, tra cui il payoff della campagna. Il problema mi pare che qui stia su due piani. Il primo è quello generale del “referente”: c’è uno speech balloon, ma non si vede nessuno che “lo pronuncia”. Un balloon che galleggia nel vuoto. Un puro oggetto grafico. Il secondo aspetto riguarda invece l’animazione del balloon. La transizione da una frase all’altra, ovvero da un balloon all’altro, avviene per rotazione sull’asse orizzontale:

Il balloon si comporta come un oggetto diverso: un’etichetta rotante. Il suo comportamento animato somiglia a quello di una bandiera, che gira su se stessa come su un perno. Domanda: che senso aveva animare questo balloon? Penso ancora all’esempio di Google Buzz, che citavo nel post precedente. Animare un balloon può certamente avere un senso. Tuttavia qui siamo davanti a un’animazione che non ha alcun valore aggiunto di senso: serve solo a giustificare una catena di frasi che si susseguono.

L’uso del “fumetto” si conferma, in questa campgna del PD, fine a se stesso. Il balloon è privo di una funzione comunicativa specifica, ovvero della sua reale e consolidata utilità come forma grafica in grado di alludere al dialogo o al pensiero, e si riduce ad essere un oggetto grafico con semplici funzioni decorative. Un’idea tipicamente estetizzante. Lo dico? Lo dico: una fighetteria discutibile. Sulla questa discutibilità si sono espressi ormai numerosi blogger, analisti e comunicatori, e persino autorevoli esponenti della ‘nuova generazione’ del PD stesso. E non mi pare un caso che gli stessi creativi di Proforma, rispondendo alle critiche sul blog del deputato PD lombardo Civati,  non abbiano motivato la scelta di usare il balloon. L’ipotesi più gettonata è che l’ispirazione venga da Twitter, il cui uso della forma-balloon è stato ripreso – that’s the problem – senza una vera riflessione sul suo significato comunicativo, che invece la cultura della Rete – e in particolare dei social network – ha perfettamente incorporato perché coerente con il senso di “conversazione” che appartiene alla logica degli scambi e dei commenti in Internet.

Stupisce ancora di più, allora, vedere come questa consapevolezza sia stata perfettamente colta dal PD nei supporti online, e sprecata – riducendola a una strizzatina d’occhi – nella campagna offline. Guardate infatti come è usata, con semplicità ed efficacia, per segnalare nelle pagine web del PD la parte dedicata ai commenti:

Mettiamola così. Se il PD volesse trovare un payoff non solo per i contenuti politici della campagna, ma anche per il progetto comunicativo in sè, avrei un’idea. Potrebbe chiedere la consulenza ad un bravo autore di fumetti italiano. Per esempio, uno come il disneyano Rodolfo Cimino, adorabile funambolo del linguaggio. Mi immagino anche quale payoff potrebbe proporre, pensando ai titoli delle sue folli storie di Zio Paperone. Potrebbe suonare più o meno così: Il PD e il grafigioco del balloon.

Murakami video galore

Pochi giorni fa, parlando di japanization, ho segnalato 2 video, di cui uno prodotto pochi mesi fa dall’artista Takashi Murakami. Tempo un paio di giorni e scopro che il video è stato rimosso da YouTube, “a causa di un reclamo di violazione del copyright da parte di Kaikai Kiki Co., Ltd.”. Ora pare una rarità, (quasi) introvabile in rete. No comment.

Provo a riproporlo qui, con un link diverso. [UPDATE: nessun link pare più attivo] E ne approfitto – oggi è venerdì – per mostrarvi una serie di video di Murakami, tutti successivi al noto (e splendido) primo spot con cui accompagnò, nel 2003, la trasformazione multicolor del monogramma di Louis Vuitton. I suoi brevi video continuano ad essere gli esempi più limpidi e coerenti di una visione estetizzante degli immaginari ‘manga’. Una visione che oggi è ormai consolidata e – anche grazie a (o a causa di) Murakami – sta diffonendo forme e stereotipi nuovi nei territori di confine tra brand, creatività, narrazioni. Puro visual-candy: super- ultra- manga- pop.

Qui il sequel del celebre spot, a celebrare 6 anni di collaborazione tra Murakami e Vuitton:

Un estratto di un film animato (da tempo) in lavorazione:

L’inquietante Inochi, opera di scultura e videoarte sul tema dell’intelligenza artificiale come freak:

Un videoclip per Kanye West, Good morning:

Un lavoro della factory Kaikai Kiki, per il logo del principale canale tv della città di Tokyo, Tokyo MX

Ed ecco, infine, il video ‘rimosso’, diretto da McG e interpretato da Kirsten Dunst:

http://www.company3.com/#/commercials-&-music-videos/stefan-sonnenfeld/akihabara-majokko-princess/

E il video del 2003? Il celebre Superflat Monogram che è anche una splendida e psichedelica rilettura di Alice nel paese delle meraviglie? Lo trovate nella videofumettogallery.

Buon weekend

Wall drawing animation

Una settimana fa vi avevo parlato di una particolare pratica di animazione: la “tipografia dinamica”, o kinetic typography. Oggi vi invito a guardare esempi di un’altra forma espressiva che mescola disegno e animazione: il “disegno murale animato”, o wall painted animation.

Si tratta di una particolare pratica che mescola disegno – realizzato su muri/pareti, come nella tradizione della street art – e audiovisivo. L’artista disegna sul muro e fotografa o videoriprende l’immagine, poi cancella il disegno e ne realizza un altro, che rappresenta un movimento / istante successivo. E così via, sempre fotografando o filmando ogni singolo disegno. Infine unisce al montaggio i singoli frame, come in un lavoro di animazione in stop motion. Il risultato sono segni e forme che “si animano” sulla superficie di un muro.

Mescolando street art, disegno e animazione, questi lavori sembrano una ri-mediazione di pratiche già proprie dell’arte contemporanea, come lo speed painting (esempio: Nico di Mattia). Videoarte, frammenti di racconto, e un’idea di disegno come performance. Il migliore rappresentante di questa pratica è senza dubbio l’italiano Blu, che innesta in questo contesto la sua poetica del mostruoso e della mutazione. Qui potete vedere alcuni suoi lavori, insieme a quelli di altri (giovani) video-disegnatori.

Comics journalism by Topolino

Non va molto di moda, oggi, parlare di Topolino. Eppure resta il settimanale di fumetti più diffuso in Italia. Una buona ragione, ad esempio, per osservarlo come cartina al tornasole dei cambiamenti nella società italiana recente (e non solo – ne dico una – per il suo documentare la centralità del sistema televisivo negli immaginari nazionali). Ce ne occuperemo, a tempo debito. Quello che però mi sembra più interessante (e meno ovvio) fare oggi, è parlarne da un punto di vista propriamente fumettologico. A ben guardare, infatti, Topolino è anche uno specchio – deformato in Disney-style – delle trasformazioni culturali del fumetto odierno.

Un dato preliminare. Nelle sue pagine, un’attenzione esplicita per il linguaggio dei comics si trova soltanto in occasioni speciali: gli anniversari della testata stessa, il compleanno di un autore (es: la memorabile celebrazione di Carl Barks), qualche raro evento fumettistico, il lancio di un nuovo prodotto. L’autoriflessività di Topolino in quanto fumetto è quindi qualcosa di raro e limitato.

Tuttavia i casi interessanti non mancano. Per esempio, da qualche mese Topolino ospita una nuova sezione del giornale, ovvero questa:

La sezione si chiama “Reportage a fumetti”. Benché si annunci come una sezione redazionale (segnalata da gabbie grafiche, segnapagina e strilli), si tratta a tutti gli effetti di fumetto. Un ibrido editoriale, dunque, tra intervento redazionale e intervento narrativo. [non è un caso che il pignolissimo database disneyano INDUCKS cataloghi poco e male questi lavori, dimostrandone la difficile ‘incasellabilità: storie o redazionali?].

Due piccole osservazioni.

1. Una parola chiave per inquadrare questi lavori è comics journalism. Una tendenza recente ben nota alla critica, ma distante anni luce dal perimetro del fumetto di intrattenimento, disneyano in primis. Giornalismo a fumetti: un registro narrativo “in presa diretta”, dove il fumetto racconta eventi reali di cui l’autore è testimone, secondo un’ottica a tutti gli effetti giornalistica, e i cui rappresentanti più noti sono autori come Joe Sacco, Ted Rall, Emmanuel Guibert, Guy Delisle ecc. Il comics journalism di Topolino è naturalmente ben diverso da quello di Sacco: niente inchieste, denunce, travelogue ecc., ma puro infotainment. Sono per la maggior parte “interviste a fumetti”, realizzate dalla redazione di Topolino e poi sceneggiate (dalla visita a Radio Deejay all’incontro Elio – Ubaldo Guidoni, ma anche recensioni-test di un videogioco, come nell’esempio che vedete qui), il tutto condito con piccoli aneddoti di vita redazionale. La vita redazionale finzionale del Papersera, o di Topolino stesso, come se fossero gestiti “dal vivo” dai personaggi disneyani.

2. Lo stile visivo è inoltre del tutto inedito per Topolino, e per l’estetica del fumetto disneyano. Un primo aspetto è il disegno: al tratto, e a matita. I disegni non sono infatti ripassati a china, e l’effetto è quello di un senso di immediatezza, legato a un segno rough che è uno dei tratti estetici più riconoscibili del comics journalism. Il disegno si basa quindi su dettagli non ‘finiti’ e linee aperte. Il tutto enfatizzato da colori che simulano l’aspetto di una carta ingiallita e più ruvida, come il bloc notes di un vero reporter o – meglio – come il quaderno di schizzi del ‘vero’ comics journalist. Ma c’è un secondo aspetto. In questa ricerca di immediatezza entra un ingrediente particolarmente raro nel fumetto: la fotografia. Volti, luoghi, oggetti, dal viso di Elio a un piatto di pasta fumante. Quasi fossero materiali assemblati e incollati su un’agenda, questi reportages legittimano un effetto collage del tutto inedito nel fumetto popolare tradizionale.

Insomma, al di là della qualità giornalistica e/o narrativa delle storie, mi pare che questi “toporeportages” ci dicano due cose.

1: che il comics journalism non è che la punta avanzata di una più ampia riflessione che sta investendo il fumetto contemporaneo, ovvero quella sui registri espressivi della rappresentazione della realtà. Una riflessione evidente sia in contesti propriamente artistici o ‘documentari’ che altrove, casa Disney inclusa;

2: e che viceversa, persino il classico Topolino non è esente dal bisogno di confrontarsi con soluzioni estetiche non ‘proprie’, fino a dialogare – pur nel quadro delle proprie regole ferree – con idee assai distanti dal modello disneyano.

In gioco c’è la mutevole identità del fumetto, anche quello popolare, oggi più che mai disposto a provare strade persino anti-tradizionali pur di trovare soluzioni alla rinnovata necessità di tuffarsi nella realtà – soprattutto visiva – delle cose.

Kirsten Dunst vs. Gwen Stefani: Japanization of (videomusic) culture

Uno dei più profondi – drammatici, entusiasmanti, contraddittori – fenomeni che hanno attraversato il fumetto contemporaneo è stato l’incontro/scontro con gli immaginari e i linguaggi della cultura orientale.

Quella che i giornalisti americani amano chiamare japanization del fumetto e, più ampiamente, degli immaginari giovanili, è ormai un dato di fatto. Ciò che sta accadendo oggi – mentre il mercato del manga in Asia è in crisi (e in Occidente ristagna) – è che intorno alla japanization sembrano prendere forma nuovi simboli. E nuovi stereotipi. In prima linea, la (video)musica pop continua a offrircene esempi.

Il primo esempio è noto. La cantante pop Gwen Stefani col suo primo album solista aveva realizzato, nel 2004, un progetto pienamente in linea con un’idea di japanization come risorsa di “stile”. Un visione così nitida e strategica da comprendere la costruzione di un vero brand di moda e accessori, Harajuku Lovers, nella cui definizione era visibile il peso di una estetizzazione del manga e del j-pop, filtrato dal gusto grafico e barocco dell’artista Takashi Murakami. Già, lo stilosissimo Mr. Murakami, il “Neo- Andy Warhol giapponese”: un riferimento di stile implicitamente evocato in diverse soluzioni visive, ipercromatiche, tondeggianti e flat della campagna promozionale (uno degli spot lo vedete nella videogallery di questo sito).

A qualche anno anno di distanza, oggi, l’attrice Kirsten Dunst è il nuovo arrivo in questo filone. Come cantante, compare in un recente video – prodotto proprio dal buon Murakami per la recente mostra alla Tate London “Pop Life” – in cui interpreta una majokko [magic girl] (confessate: preferite Creamy o Sailor Moon?) agghindata in perfetto stile da cosplayer. Ed ecco un nuovo simbolo: il cosplay. Una pratica espressiva pienamente appropriata dall’industria dei contenuti, mostrata qui come metafora di un modo di intendere l’Oriente che del Giappone prende solo alcuni tratti spettacolari. Un bel gioco sexy, in fin dei conti. La natura partecipativa del cosplay, ‘invenzione’ creativa di appassionati lettori hardcore, sparisce dall’orizzonte, e lascia spazio solo al racconto di una specie di guida turistica (la Dunst versione majokko) al pop giapponese, ammiccante e colorata.

Se un tempo erano il sesso, la violenza, il radicale technocentrismo, la pervasività dei consumi, oggi tocca all’alienazione (otaku e hikikomori), al fashion e alle forme di “consumo spettacolare” calcare la scena della nuova riproduzione sociale degli stereotipi sulla pop culture asiatica, e giapponese in particolare. Nient’altro che nuove forme di esotismo, mascherate (come sempre…) da ingredienti cool della società dello spettacolo.

In un Occidente affascinato e insieme spaventato dall’incontro con l’Oriente, il fumetto degli “altri” continua ad essere interpretato secondo lo sguardo stereotipico dell’esotismo. Niente di nuovo sotto il sol (levante).