E se FlashArt non è contemporanea, Pazienza

Flash Art, dice la testata, è “la prima rivista d’arte in Europa”. La copertina dell’ultimo numero, datato luglio 2010, merita alcune riflessioni.

Come saprete, Flash Art è un pezzo di storia della cultura italiana. In oltre 40 anni ha scoperto o lanciato un tot di protagonisti dell’arte contemporanea. Artisti come Marina Abramovic, Matthew Barney, Damien Hirst, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, eccetera eccetera. Tra i suoi collaboratori, inoltre, non sono certo mancate le teste fine: da Obrist a Gioni, da Szeemann a Bourriaud.

Per la prima volta, almeno a mia memoria, questa rivista dedica una copertina a un autore di fumetto. Non dico a un artista vicino al fumetto (niente Liechtenstein, Haring, Warhol, Pettibon, Murakami ecc.), ma a qualcuno che nel fumetto ha vissuto e si è riconosciuto. Un piccolo evento.

Chi sarà mai, dunque? E’ Andrea Pazienza:

Non ci giro intorno: lo ritengo un sonoro errore. E il trattamento – un pezzo di Giacinto Di Pietrantonio (critico e curatore) e uno di Paolo Pompa (collezionista di Paz) – non fa che rendere più evidente lo sbandamento culturale. Se avete parecchio tempo da perdere, e nulla di meglio da fare che leggere una lunga, classica polemica fumettologica, direi che le questioni sono almeno due: le argomentazioni critiche, e la scelta stessa di mettere in copertina Pazienza.

1) Le argomentazioni critiche.

Dei due articoli, quello di Di Pietrantonio offre una lettura interpretativa (milieu artistico, modelli di riferimento, poetica), mentre quello di Paolo Pompa è un classico profilo critico-biografico (vita e opere).

Un primo cortocircuito è nel pezzo di Pompa. Titolo: “La passione di un fan”. Svolgimento: Paz nasce qua, si sposta là, pubblica questo, dice quest’altro (tutto corretto, peraltro). Domanda: cosa diavolo vorrebbe significare, quindi, il titolo? Che l’amico Paolo Pompa ci racconta del suo rapporto personale? Che si apre un dibattito jenkinsiano sulla fan culture sorta intorno a Pazienza? No. Semplicemente, che a parlare della carriera del fumettista ci sta bene un fan. Si sa: il fumetto non ha un pubblico, non ha lettori, non ha critici: ha dei fans. Avvertenza ai collezionisti: per la Proprietà Transitiva di Flash Art, se sei un collezionista d’arte che colleziona fumetto, puoi essere chiamato fan (a quando un’applicazione dello stesso teorema ai miliardari “fan” di Caravaggio o Delacroix?). Ecco dunque il sofisticato retropensiero della rivista: a parlare dei fumetti che ha fatto, chiediamo a un fan che li conosceva; noi, così, parliamo d’altro.

E infatti l’articolo principale parla d’altro. La visione che Di Pietrantonio offre del “fumettaro” (scritto tra virgolette) Pazienza – titolo: “Postmoderno sui generis” – è un esemplare paradosso. Quasi non si parla di fumetto. Di Pietrantonio argomenta correttamente sulla postmodernità di Pazienza. Lo intende come interprete di un postmoderno che dello smarrimento, del cinismo citazionista, e della fine della storia (eccetera eccetera) fa una risorsa vitale e positiva: “una versione rovesciata in cui quelle negatività sopracitate hanno la dimensione del racconto politico e della resistenza quotidiana tipici della controcultura”. Ricostruisce il milieu artistico della Pescara in cui Pazienza si era formato (la galleria Convergenze, l’arte Informale, Alviani, Mario Merz, l’Arte Povera, i successivi Sandro Chia, Francesco Clemente ecc.). Ma in tutto questo il fumetto non si vede, non si sente, non si nota. Per dirla galantemente, è un impensato.

Di Pietrantonio scrive poi dell’attitudine futur-dada di Pazienza; del suo uso della lingua come pastiche tra volgare e colto e dialettale, un quasi-grammelot; dell’influenza su un’artista come Cecily Brown. Ma come tutto ciò sia implicato nel fumetto pazienziano, non è dato sapere. I temi e i concetti sono tutti corretti e opportuni, sia chiaro. Ma sono sfacciatamente disincarnati dalla concreta pratica dell’arte pazienziana: il fumetto. E dire che, proprio dopo avere fissato la propria chiave interpretativa sulla postmodernità dell’autore – Di Pietrantonio scrive:

non è un caso che spesso utilizzi riferimenti ad artisti e movimenti dell’avanguardia e non, attitudine derivata dalla consapevolezza che la sua opera è una questione che riguarda lo spostamento del significato dell’arte, che solo per scelta si esprime tramite le strisce, anche perché la prima cosa che egli mette in chiaro è la scelta del linguaggio e di campo, che è ciò che contraddistingue l’essere artista.

Se la scelta di campo contraddistingue gli artisti, la scelta di categorie dovrebbe contraddistinguere i critici. E se volessi fare del facile sarcasmo, suggerirei di prendere nota dell’affermazione secondo cui Pazienza si esprime tramite “strisce” (categoria che, in teoria dell’arte [scusate: del fumetto], è riferita alle daily strips, forma linguistica raramente praticata dal nostro). Ma il punto è che se è vero questo assunto, sarebbe conseguente discutere di come il campo – noto ai più come “fumetto” – abbia distinto Pazienza da altri artisti. Gli elementi non sarebbero certo mancati, e di grande attualità nel dibattito sull’arte. Le scelte sui materiali (il colore, la carta, gli altri supporti), sugli stili figurativi (se si scrive “talento innato” per il disegno, poi ci si aspetta che un critico discuta di disegno), sulla messa in pagina (il fumetto non è una singola immagine su tela – o si crede sia irrilevante?) avrebbero potuto dirci molto della sua identità “postmoderna sui generis”. E invece no: la concreta pratica artistica conta poco, nel caso di Pazienza. Forse per una banale ragione: è il suo essere fumettista che pone problema. Un atteggiamento di miopia culturale che gli intellettuali italiani più sensibili – come quelli che si occupano abitualmente di arte – avrebbero messo da parte ormai da anni; più a parole che nei fatti, però.

Da questa analisi esce mortificata proprio l’identità dell’arte di Pazienza. Il cui linguaggio non era il design o la pittura, ma il fumetto: ricordarlo aiuta a capirlo, a spiegarlo, ad apprezzarlo – a “contraddistinguerlo”, per riprendere le parole di Di Pietrantonio. E invece no. Il ritratto che ne esce è in effetti un cortocircuito che fa apparire Pazienza non un artista eccellente in una certa pratica (il fumetto), ma un teorico. Un equivoco di fondo che in un passaggio del testo emerge in superficie. Il critico parla di un’immagine di Tamburini, che disegna una parodia della celebre foto di 5 futuristi a Parigi nel 1912, sostituendoli con gli autori di Cannibale (e dove Pazienza è al posto di Marinetti):

è chiaro, da questo disegno, che Apaz-Marinetti è considerato un artista apripista, un teorico consapevole di stare cambiando la storia, perché da Pazienza in poi, e su questo c’è convergenza critica, come era successo in Francia per Moebius, il fumetto non sarà più la stessa cosa, non sarà più fumetto, ma arte.

Pazienza leader come Marinetti, e quindi – sillogismo – capofila avanguardista. Sarò poco postmoderno, ma mi tocca un commento “classico”, stile critico polemista (pre)moderno: non c’è alcuna convergenza critica sul fatto che da Pazienza in poi il fumetto sia diventato arte, e prima invece no. Mi duole dirlo, ma è noto da tempo che le cose non stanno così. E non solo perché Tamburini era il vero movimentista, e perché Paz non ha mai inteso collocarsi in testa a un movimento rappresentandolo come leader. Pazienza è stato sì cruciale, e ha segnato un punto di svolta (idea che condivido al punto da averci imbastito un programma tv per Cult/Sky, nel lontano 2004, dal titolo “Antistoria del fumetto italiano: da Andrea Pazienza ad oggi“). Ma con lui è semplicemente accaduto, in Italia, ciò che altrove era già accaduto: si sono rivolti al fumetto alcune gallerie, musei, curatori e critici. Con Pazienza – e la seminale mostra curata nel 1982 da Francesca Alinovi che lo incluse tra gli artisti esposti alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Modena – si svegliò il “sistema dell’arte”. Ma non andiamo oltre, please: la caricatura è dietro l’angolo.

L’identità postmoderna del “Pazienza-teorico” è quindi chiarita molto bene; non lo è, però, quella dell’artista, la cui concreta pratica fumettistica non è minimamente abbozzata. Pare quasi che, nonostante si dica che la scelta è stata rilevante, Pazienza al fumetto si sia dedicato per un puro caso del destino. Robert Crumb o Carl Barks o Rick Griffin oppure Paolo Bacilieri o Gipi non contano: Pazienza non ha padri e non ha figli, perché Pazienza va oltre. Pazienza fa fumetti, ma trascende il fumetto.

Mmmh. Perplessi? Mi fermo qua. Altrimenti pare un attacco personale. Eppure non lo è. Mi spiego.

A Giacinto Di Pietrantonio riconosco meriti oggettivi, anche e proprio in ambito fumettologico. Fu lui a curare una delle mostre italiane dedicate al fumetto che ho più amato negli anni universitari: la mostra InFumo alla GaMeC di Bergamo nel 2001 (se ben ricordo ne scrissi per Fumo di China). Ci trovai Jean Michel Basquiat, Keith Haring, Marcel Dzama, William Kentridge, Raymond Pettibon, Jun Hasegawa, Roy Lichtenstein, Miltos Manetas, Takashi Muarakami, Julian Opie, Ben Vautier, Andy Warhol. E Igort. E Pazienza. E molti altri. Una mostra magari imperfetta, dai contorni concettuali vaghi e dalle assenze evidenti, ma piena di un’energia e una voglia di indagine che ancora oggi, in Italia, me la fa ritenere la migliore esplorazione curatoriale sulle relazioni tra fumetto e arte contemporanea. Una mostra, inoltre, che mi ha spinto a voler conoscere artisti come Roberto Cuoghi o Stefano Arienti, con cui ho poi avuto occasione di collaborare in piccole (il Piccolo Festival intorno al Fumetto organizzato con – guarda il destino – il Centro Fumetto Andrea Pazienza) o grandi occasioni (nella mostra per Triennale scelsi proprio di aprire con una serie di opere di Arienti).

Dunque qual è il nodo che mi rende tanto sensibile? Forse è riassumibile facilmente: chiamiamola “questione generazionale”. Gli errori critici e culturali di Di Pietrantonio sono riconducibili a una visione, limitata e superata, che mi pare tipicamente generazionale. Come l’attualità ci ricorda con forza, la generazione dei Boomers, cui Di Petrantonio appartiene, continua a insistere sui propri tratti identitari, ipostatizzandoli in “letture del mondo” che suonano sempre più retoriche. Mentre l’arte contemporanea procedeva, e il fumetto contemporaneo procedeva, il critico sembra essersi fermato – almeno per quanto riguarda l’analisi della relazione tra fumetto e arte – a uno stadio interpretativo piuttosto primitivo, congelato in visioni vecchie di trent’anni. Scrive ancora Di Pietrantonio:

[Pazienza e gli autori di Cannibale e Frigidaire] costituiscono l’alternativa  “politica” e di resistenza alla postmodernità italiana mondana della Transavanguardia (arte), di Memphis (design), della Tendenza (architettura) e del Made in Italy (moda). Difatti, se l’approccio formale è simile, nel senso che questi autori, Pazienza in testa, hanno un’attitudine formale similare, in quanto producono tavole generate da riferimenti e citazioni a opere d’arte del passato, l’impiego che ne fanno, i contenuti di cui li riempiono non sono mondani, ma al contrario di rottura”.

Tutto ok, ineccepibile dal  mio punto di vista: istanze politico-culturali, intertestualità, rottura dei modelli formali, anti-mondanità. Ma detto francamente: si può dare di più, per analizzare la contemporaneità di Pazienza, che non rimestare nei contenuti estetici evidenti già nel contesto di 30 anni fa. Si può fare lo sforzo di rifletterci su a partire dall’oggi, per un servizio di copertina di una Flash Art del 2010. E inoltre, tu quoque. La deriva verso la “nostalgia canaglia” è evitata, e almeno in superficie non emergono discorsi sul non c’è più il postmoderno di una volta. Ma dopo l’esperienza di InFumo, da Di Pietrantonio mi sarei aspettato qualcosa di più di un compitino dal retrogusto generazionale.

2) Le ragioni della scelta.

Intendiamoci, nulla contro Andrea Pazienza. Non devo certo ricordare qui perché sia stato un gigante. Né voglio giocare al gioco snob del “ve ne accorgete adesso?”. Ma al di là degli argomenti del critico, non c’è niente da fare: è la scelta stessa della rivista ad essere fuori luogo. Ha senso collocare in copertina oggi, tra i protagonisti dell’arte contemporanea, Andrea Pazienza? Sì e no. Ma non praticando il cerchiobottismo, lo dico chiaro: è più NO che sì, se il contesto è quello di una rivista internazionale di attualità, scouting e riflessione estetica negli anni Duemila.

Certamente sì, se si guarda alla sua eredità in Italia. Non si può però dimenticare che all’estero ha contato poco e niente, e resta una figura sostanzialmente ininfluente. Diciamo che, come prima copertina dedicata a un artista del fumetto, è una scelta direi “arcitaliana”. Ma avrebbe senso comunque, se solo fossimo in presenza di un autentico sguardo retrospettivo: Pazienza ha indubbiamente lasciato il segno, si diceva. Tuttavia Flash Art non abbozza uno straccio di riflessione o indagine proprio su questo punto: non si coglie nulla di ciò che Pazienza ha lasciato (stilemi e meccanismi, eredi ed epigoni, desideri e modelli culturali). Nessun tentativo retrospettivo, quindi. E il panorama che implicitamente si disegna intorno alla sua eredità artistica è una caricatura culturale: da un lato Pazienza, dall’altro il deserto.

Se l’obiettivo fosse stato rendere conto di un artista ancora presente nella testa e nel cuore di tanti (artisti critici fumettisti), il miglior servizio sarebbe stato il contrario di questo ritratto ‘teorico’ che lo mette su un piedistallo. Una musealizzazione critica che, in fin dei conti, suona paradossalmente astorica, ficcata com’è nel loop di una visione generazionale che insiste sempre sugli stessi aspetti (frattura ‘politica’, postmoderno…). Piuttosto, ci si sarebbe dovuti impegnare per rintracciarne la presenza sottopelle in tanta cultura italiana, letteratura cinema arte – e soprattutto “a casa sua”: nel fumetto, perlamiseria. Che senza di lui, oggi, in Italia non sarebbe uguale a come in effetti è.

Se invece si fosse voluto inquadrare, dal punto di vista dell’arte di oggi, un vertice espressivo raggiunto attraverso una specifica pratica artistica – il fumetto – beh, ho una notizia per il direttore Politi: oggi come oggi questa pratica di ricerca ha diverse eccellenze. Alcune sono persino più rilevanti di Pazienza (e mi limito a ricordarle almeno Art Spiegelman e Chris Ware, ché ormai ne parlano anche studentelli al primo anno di Accademia). Forse oggi, in copertina di una Flash Art, dovremmo trovare altri artisti. Se solo ci fosse la volontà e la capacità di osservare cosa si muove in quel territorio dell’arte che si chiama fumetto (e che nessuno si azzardi: il mantra “graphic novel” qui non attacca).

Certo, una rivista non è un’enciclopedia che tutto deve e tutto sa, con cui misurare i saperi sociali circolanti sull’arte. Flash Art fa le sue scelte, ha la sua visione, eccetera. Ma se Flash Art non si è occupata quasi mai di fumetto, e la prima volta che lo fa con una copertina sceglie Pazienza, beh, è desolante cogliere la distanza tra di essa e la realtà dell’arte raccontata altrove. Correttissimo anche eccepire che riviste come Frieze o Beaux Arts Magazine o altre non svolgono la medesima funzione di Flash Art. Ma la presenza del fumetto in queste testate – crescente e persino banale – e la speculare assenza dalle pagine di Flash Art, beh, pare proprio la spia di un radar culturale che suona ormai inceppato.

Sembra proprio che Flash Art non riesca a cogliere il dato fumettologico, anche quando evidente nelle grandi mostre internazionali, dalla Whitney Biennial alla Biennale di Venezia al Salon du Dessin. Sembra che Flash Art non riesca là dove le riviste di riferimento in settori anche più distanti, come l’architettura (si pensi anche solo a Domus), hanno ri-sintonizzato le antenne, includendo, quando e dove opportuno, il fumetto. Verrebbe da chiedere al direttore Giancarlo Politi: ma voi dove eravate mentre il fumetto cambiava? O meglio: dove eravate mentre l’arte contemporanea cambiava, fumetto incluso? La risposta che pare implicita nella scelta di copertina è: eravamo fermi ad Andrea Pazienza, perché? Non sarà mica successo qualcos’altro?

Insomma, in Italia va così. Andrea Pazienza strikes again. Anche da morto riesce a far deflagrare alla perfezione i pregi ma soprattutto i difetti del sistema dell’arte visto da qui: cosmopolitismo ombelicale, retorica generazionale scambiata per afflato teorico, exception culturelle all’amatriciana, una sorta di “teoria della relatività ristretta” delle competenze.

A Pazienza vogliamo molto bene, e alla critica d’arte pure (?), ma il buon Paz non è certo la lente migliore, oggi, per leggere la contemporaneità. A meno che la fase di riflusso culturale in cui ci siamo infilati non ci stia costringendo a coltivare, nostro malgrado, la memoria di un contemporaneo che non c’è più. Più che un luminoso flash, sarebbe uno spaventoso black hole.

29 Risposte

  1. Gran bel pezzo.
    In effetti, se si va a scoprire OGGI Pazienza, anche solo per rimanere in ambito italiano, Gipi, Corona, Squaz, Fior e tanti altri, che nell’arte anche come riferimenti e incroci ci sguazzano, quando li vogliamo ri-scoprire? Aspettiamo che siano morti da 20 anni? A questo punto meglio augurar loro (e a noi da lettori) di rimanere nell’oscurità per molto tempo ancora!

  2. […] This post was mentioned on Twitter by LoSpazioBianco, Matteo Stefanelli. Matteo Stefanelli said: E se FlashArt non è contemporanea, Pazienza: http://wp.me/pzGWE-Nd […]

  3. bella analisi. si fa una fatica boia a separare il valore di pazienza dalla spinta emotiva tutta italiana di chi lo legge e lo sovraccarica di valori altri.

  4. La buona novella, forse…

    Siate lieti, fratelli fumettofili. E’ arrivato il giorno della salvezza per noi anime perse tra le vignette. Tutti i nostri peccati di ferventi di Tecs Uiller, Michei Maus, Dilan (o Dailan) Dog e Spaiderman sono stati, finalmente, mondati. Usciam…

  5. […] a uno dei più grandi fumettisti italiani: Andrea Pazienza. A segnalare questa presenza su Fumettologicamente è Matteo Stefanelli, che non risparmia qualche critica per il taglio dei due articoli pubblicati […]

  6. … perchè non ti occupi anche delle riedizioni delle opere di Paz? ce ne sarebbe da scrivere…

  7. ah, dimenticavo… bene, bravo, bis, quando parli del parallelo futuristi-cannibali con Paz-Marinetti in testa…
    diciamola tutta: a Paz sarebbe piaciuto l’idea di interpretarne il ruolo, ma non aveva nè una vera spinta, nè i “muscoli” necessari 😉
    se può cambiare qualcosa, va comunque detto che il disegno dei futuristi – contrariamente a quanto molti pensano – è di Pazienza (e non di Tamburini!), e Liberatore vi ha aggiunto – aprendo un varco nel foglio – la figura di Mattioli, dimenticata da Paz (del resto Mattioli era al bar)…

    • @mordente: grazie. La tua conoscenza del lavoro di Tamburini&Paz è sempre al top. Non capisco una solo una cosa: in che senso Mattioli era al bar?? 😉

      • era un’aggiunta di Tamburini alla didascalia della copertina di Paz per il Cannibale a quattro copertine, che tanto fece incazzare Mattioli e divennne una sorta di tormentone nel gruppo di Cannibale.
        Puoi vedere la cover (è la quarta) al link:

        Curioso: anche quella copertina era dedicata ad artisti di inizio novecento, qui dadaisti e non futuristi, e anche lì Pazienza dimenticò Mattioli come nel disegno dei cannibali-futuristi…
        (per il download dell’albo http://www.tntvillage.scambioetico.org/index.php?act=showrelease&id=148648

  8. scusate, per tornare al presente, in tema con l’articolo c’è questo:
    http://lulaswalls.blogspot.com/2010/07/car-engine-invitational-drawing-show.html
    Una galleria d’arte di Chicago espone autori di fumetti e ospita lavori anche di italiani contemporanei

    da sottolineare la presenza di gallerie del genere anche in Italia
    sarebbe da capire quanto la caduta di stile di cui parli, matteo, sia dovuta semplicemente al classico problema italiano delle parrocchiette

  9. Sono Paolo Pompa. Sono il fan di Pazienza che ha scritto l’articolo. Il titolo non l’ho pensato io ma non pensavo che un titolo fosse importante. La mia parte era divulgativa sulla vita e le opere di Pazienza e la mia idea era di rendere un servizio a tutti noi amanti del fumetto e per me di essere il primo a parlare di Pazienza su una rivista d’arte . Sono convinto che ci siano critici più bravi di me nell’instaurare un percorso analitico dell’arte di Pazienza. Sono però convinto che questo doveva essere un punto di partenza e non di arrivo e chiedo a voi “critici d’arte del fumetto” di non essere già oggi cosi noiosi e criptici dei vostri fratelli dell’arte moderna .

    • paolo: se hai letto con attenzione, dovresti avere colto che non ci sono perplessità su come sia stato scritto il tuo intervento. Sono convinto (e l’ho scritto) che tu abbia svolto bene il tuo compito, scrivendo un profilo critico-biografico del tutto standard nel senso positivo del termine: ci hai messo quel che serviva, e quindi l’ho apprezzato – come dici tu – come un buon “punto di partenza”.

      Le questioni, però, sono altre. E non credo che valga la pena mettere in campo argomentazioni che suonano come una excusatio non petita. Il titolo che è stato scelto per il tuo pezzo – e i titoli, si sa, possono essere più “fattuali” o più “interpretativi” – è una strategia di framing del tuo intervento fortemente interpretativa, che invece di mettere l’accento sul contenuto lo mette sull’estrazione culturale dello scrivente (un “fan”). Una scelta poco motivata (della tua natura di fan, magari anche interessante in sè, non si parla nel tuo pezzo) e che ritengo motivata da stereotipi culturali che mi sento di dover contestare (perché per Pazienza parlare di fan, e per la Beecroft o Kentridge no?). Nulla contro l’essere fan, sia chiaro; ma è davvero un ammiccamento poco serio, per una seria rivista di critica d’arte, perché non dice nulla dell’artista ma semmai di un modo di vedere il pubblico di certa arte. Un modo che confina con la stigmatizzazione (“fan = consumatore acritico”), e che la cultura dell’arte internazionale ha ormai superato – tranne dalle parti di Flash Art, parrebbe.

      Vorrei poi sapere sulla base di quali aspetti ti senti di dare dei “criptici” (non mi pare servano due lauree o chissà quali competenze tecniche o gergali per comprendere questo post) e dei “noiosi” a quelli che tu chiami “critici d’arte del fumetto”. Che peraltro pare un’etichetta un po’ “criptica”: cosa sarebbe un “critico d’arte del fumetto”?

  10. Per tornare al titolo fan=tifoso non lo ritengo così sbagliato. Posso essere fan di Caravaggio senza essere purtroppo un consumatore acritico ( magari avessi un Caravaggio). Ma ti ripeto sui titoli degli articoli si potrebbe stare qui delle ore. Nel caso di specie il mio essere fan potrebbe essere dovuto alla caparbietà nel volere che una rivista d’arte cominciasse a parlare del fumetto e di uno dei suoi ( e non solo) maggiori ( su questo spero siamo d’accordo) artisti .
    Ci sono e saranno altri artisti prima e dopo di lui , compito di altri ….
    Per rispondere alla seconda parte, la mia speranza è che chi parla del fumetto (almeno in questa fase ) non dovrebbe pensare immediatamente a come criticare chi comincia a farlo. Invece di ringraziare Politi scrivi “verrebbe da chiedere al direttore Giancarlo Politi: ma voi dove eravate mentre il fumetto cambiava?” . Giancarlo ha finalmente squarciato un velo. A mia memoria riviste d’arte Italiana mai avevano trattato un artista in questo modo.
    Criptico lo sei quando dici “Se la scelta di campo contraddistingue gli artisti, la scelta di categorie dovrebbe contraddistinguere i critici.” Cosa intendi ?
    E per ultimo TU sei un buon critico d’arte del fumetto.
    Come dico ai miei pazienti (sono un Chirurgo) io sono il tuo migliore amico fino alla dimissione.. Così vorrei che tutti noi che amiamo il fumetto fossimo uno per l’altro il nostro migliore amico fino alla sua completa affermazione….
    Seguo con vera ammirazione i tuoi articoli…
    A presto

    • paolo: non voglio insistere sulla questione titoli. Ma non dimentichiamo che tutti i giorni vediamo (per esempio nell’informazione politica) che “la notizia la fanno i titoli”: magari pensati dalla redazione e non condivisi dall’autore, magari sbagliati, ecc. Resta il dato: un titolo è una chiave di lettura. E come tale, mai neutrale.
      La tua caparbietà va benissimo (e posso persino stimarla). Ma dare del “fan” a un collezionista di Delacroix o Picasso o Beecroft non avviene perché nell’idea di fan c’è qualcosa di diverso che nell’idea di collezionista. Suvvia, non c’è nulla di strano nel riconoscerlo (e non è certo l’errore principale di FlashArt): si voleva giocare sull’assioma “fumetto=fans, forma ‘bizzarra’ di collezionismo”. Possiamo anche sorridere insieme, se vuoi: un ammiccamento non è un delitto. Però bisogna anche ammetterlo: un ammiccamento che viene da una storia di stigma ecc. (mi tocca invocare il buon Henry Jenkins?).

      Poi.
      Politi non ha squarciato nessun velo. Andiamo: in tutto il mondo ci sono riviste, curatori e musei (e parlo almeno di quelli con cui ho davvero parlato o lavorato – dal Moma al Pompidou, per dire i più ovvi) che lavorano sul fumetto contemporaneo da tempo. E che discutono di Pazienza ma anche e soprattutto d’altro: di Chris Ware o Joe Sacco, di Tatsumi o Mazzucchelli. Non mi piace quando dici “i fumettologi non dovrebbero pensare immediatamente a come criticare chi comincia a parlare di fumetto”. E i critici di videoarte (per dire) o i videoartisti non hanno forse dovuto affrontare snobismi e ignoranza delle vecchie scuole?
      Paolo: di fumetto si parla da anni sempre più, e spesso con grande acume estetologico – e credo che banalmente FlashArt abbia fatto un lavoro al di sotto della media. E bada che non parlo (solo) della media degli “esperti di fumetto” (categoria per cui non nutro nessuna venerazione, e di cui spesso contesto le miopie e alcune logiche corporative), ma del giornalismo culturale, della critica d’arte, del mondo dei curatori, dei (pochi) vari intellettuali in genere. Non dico che altrove (Beaux-Arts Magazine, per dire) sono rose e fiori, e che FlashArt è puteolente. Dico solo che sul fumetto non ha saputo tenere lo stesso livello di “sensori” che ha nei confronti del resto dell’arte. Politi non lo sa, o non è interessato: il mondo dell’arte ne capisce di fumetto, ma bisogna attrezzarsi per notarlo. Parlare di Pazienza postmoderno, francamente, non lo dimostra.
      Ecco perché trovo la scelta di Pazienza paradossale, discutibile, e doverosamente contestabile. Anche per la stima nei confronti di DiPietrantonio (stima che penso di avere ampiamente argomentato).

      Inoltre.

      La tua nota sul passaggio “criptico”. Con quelle parole intendevo far notare come DiPietrantonio utilizzi categorie e concetti un po’ generici, dimenticando quelli che abitualmente utilizza la critica più avveduta e competente (una cui lista abbozzavo, però, proprio a ridosso di quel passaggio..). Mi perdonerai se non riprendo ora, e qui, questa parte che è certamente (e per fortuna) la più complessa.

      Per tutto questo trovo un vero cortocircuito quando scrivi “vorrei che tutti noi che amiamo il fumetto fossimo uno per l’altro il nostro migliore amico fino alla sua completa affermazione”. Non sono daccordo. Credo invece che si debba “criticare anche gli amici”. Un dovere intellettuale che ci richiede qualsiasi oggetto, tanto più il fumetto, che ha ancora un tot di strada da “recuperare”. Oppure invece sì: condivido, facciamo quadrato. Ma allora se un esperto d’arte contemporanea dimostra uno sguardo antitetico a un vero sguardo contemporaneo sul fumetto, allora andrà contestato. In entrambe i casi, FlashArt ha toppato.

      Per il resto posso solo ringraziarti. Chirughi, critici e fumettologi non avranno le stesse abilità, ma si possono intendere perfettamente. Magari con un po’ di tempo e disponibilità a discutere.

      Quindi grazie: spero di ritrovarti qui (e altrove).

  11. Andrea dichiarò di avere abbandonato la pittura per il fumetto, perchè vedeva un limite nel fatto che i suoi quadri adornassero le camere da letto dei framacisti… chissà cosa ne penserebbe ora dei suoi quadri nei salotti dei chirurghi 🙂
    (non te la prendere, paolo, è solo una battuta dettata dall’invidia per la tua collezione, di cui conosco solo alcuni pezzi e immagino il resto…)

    • E’ una frase di Pazienza che ho in mente da tanto tempo … d’altra parte si scontra con “prima pagare poi disegnare” qualcuno che tira fuori i i soldi per i disegni ci deve pure essere (farmacista o chirurgo) il solito conflitto tra arte e mercato dell’arte ….
      Ciao e a presto..

  12. Caro Matteo
    sono appassionatamente con te.
    D’altra parte l’Arte non è una cosa concreta e definibile, ma semplicemente un mito dell’Occidente contemporaneo, che si squaglia o cambia forma non appena ci si provi seriamente a definirne i confini. L’operazione di Flash Art voleva essere probabilmente quella di assumere Paz dentro quel mito.
    Capisco e condivido l’irritazione di chi (come me) il mito di Pazienza ce l’ha già e sente questa assunzione come piuttosto ridicola. Ma per chi ha quel mito, presumibilmente il modo di operare di Flash Art è corretto, e le parole di DiPietrantonio sono quelle giuste.

    Ogni religione ha i suoi riti di canonizzazione.
    Ciao
    db

    • daniele: grazie. Non che dubitassi, peraltro.

      Hai ragione a dire che ciascuna comunità (inclusa una testata) ha i propri miti e riti di canonizzazione e legittimazione. Il problema è che, non essendo un relativista assoluto, tocca prender posizione per…relativizzarli.

    • In tutta questa “animazione” 😀 mi sento di esprimere il mio totale disaccordo sul fatto che l’arte non sia una cosa concreta e definibile. A sostenermi in questa mia convinzione c’è nientemeno che Oscar Wilde e a conferma delle sue teorie, probabilmente mosse un po’ dall’osservazione e un po’ da un’innata predisposizione, c’è persino uno studio scientifico.

      • Be’, caro Marco, se tu fossi in grado di darmi una definizione concreta di Arte (che non sia qualcosa come “L’Arte è quello che noi chiamiamo arte”), te ne sarei davvero grato.
        Il fatto che sia un mito non vuol dire che non esista. Il fatto che esista non comporta né che sia concreta, né che sia definibile. A Oscar Wilde piaceva molto giocare e scandalizzare. Quanto allo studio scientifico sulla natura concreta e definibile dell’Arte, sarei proprio curioso di sapere su che cosa si fonda.
        Ciao
        db

        • No Oscar Wilde non intendeva affatto scandalizzare (e francamente mi stupisce che ancora oggi qualcuno lo possa pensare).
          Comunque la sua serissima definizione di cos’è l’arte (che io metto volutamente in minuscolo) è stata scritta da lui stesso nella famosissima prefazione a “The Picture Of Dorian Gray”.
          Quanto allo studio scientifico, ha dimostrato che con tutta probabilità la percezione della bellezza non è qualcosa di relativo (cioè non è un fatto di gusti), ma è qualcosa di assoluto e innato.
          Ora, Oscar Wilde scrive appunto “The artist is the creator of beatiful things.” quindi le opere d’arte (essendo il prodotto dell’artista) sono cose belle. Quindi, se la bellezza è qualcosa di assoluto (non “è bello ciò che piace”) e il lavoro dell’artista è creare cose belle, non vedo come si possa ritenere l’arte qualcosa di indefinibile.
          Più si semplicemente, tutto questo discorso, si può sintetizzare con l’assunto che l’arte è bellezza.

  13. mi ero perso questo articolo e sono davvero contento il prof. riesca a “maneggiare” con tal perizia l’argomento….è ora di finirla con fumetto=roba per bambini….

  14. Al di là del mio intervento OT, sono d’accordo con quanto scritto in questo articolo.

    Ce ne sono di artisti contemporanei e vivi (che hanno deciso di esprimersi con il fumetto) che meriterebbero di essere raccontati.

  15. @ Marco, sull’arte.
    Dalle tue definizioni temo che dovrei dedurne che:
    a) avendo fatto una bella figlia, io sono un artista;
    b) molti artisti del 900, avendo deliberatamente evitato di produrre cose belle, non hanno fatto dell’arte
    c) mia figlia è bella per tutti (come peraltro qualsiasi scarrafone del noto proverbio – anche se naturalmente lei non è uno scarrafone).
    Non so se Wilde non avesse letto Kant, o se facesse apposta (mi sembra più probabile), ma tra il bello e l’arte la relazione è (purtroppo) moooooooooolto più problematica di così.

    A proposito. E una definizione di “bello”? Se pensiamo di poter fondare l’arte sul bello, bisognerà che la base sia solida, no?
    db

    • @Daniele
      Bisogna premettere che la percezione innata e assoluta del bello, in una persona matura, può essere stata contaminata e distorta da filtri sociali, morali, etici e religiosi.

      a) Questa obiezione sembra semplicemente provocatoria. Concepire una figlia/o è soltanto la trasmissione di corredo genetico, mentre l’arte è una creazione arti-ficiale (scusa per il soltanto non è inteso a sminuire il tuo ruolo di padre o di qualsiasi altro padre o il suo ruolo di figlia), anche se tua figlia è bella non è certamente artificiale (artefatta, fatta ad arte).

      b) Vero (e non solo quelli del ‘900), anche se, chiaramente, dipende anche da quanto è contaminata la tua percezione del bello. Se, ad esempio, inorridisci a vedere un pube (o anche soltanto ti mette a disagio), vuol dire che sei stato contaminato dalla società. Per capirci, un neonato, se vede una persona nuda, non gli fa alcun effetto. Mentre gli adulti hanno reazioni diverse a seconda della loro educazione.

      c) Che Wilde avesse letto Kant è irrilevante. Così come tu metti in dubbio se Wilde fosse veramente convinto di quello che diceva o se non stesse semplicemente provocando, io potrei fare lo stesso con Kant.
      L’unica cosa che contesto a Wilde è il fatto che per lui l’arte sia qualcosa di inutile. Non sempre è così.
      L’Architettura (quando la facevano veramente) serviva a costruire edifici, case, … Anche il falegname, per me è un artista, se fa un bel mobile. Mentre noi siamo abituati a distinguere fra artigiani e artisti. Mi sembra una sterile barriera.
      In ogni caso non ho pronta sotto mano una definizione di bellezza, ma posso dirti cosa non è.
      La bellezza non è legata al contenuto. Ad esempio non possiamo stabilire se una cosa è bella in base ai nostri convincimenti morali, sociali e religiosi. Chi lo fa, come dice lo stesso Wilde, sta commettendo uno sbaglio. E, in effetti, un film horror, che ha contenuti spesso violenti e immorali, può essere un bel film, se fatto bene. Pensa alla reazione mossa da “Passion” di Mel Gibson. Il film non è solo violento e inquietante ma rivela in tutta la sua cruenza la violenza e l’ingiustizia fatte ad un uomo, che non era solo un uomo; per buona, parte dell’occidente, è il figlio di Dio. La violenza eccessiva, secondo alcuni, ha sconvolto le persone perché è come se Gibson avesse ri-commesso la colpa massima della cristianità, la crocifissione di Cristo!
      Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con il fatto se “Passion” sia un bel film oppure no.
      Un bel dipinto, per essere tale, non deve necessariamente ritrarre una cosa bella. Pensa ai molti bei dipinti di brutti aristocratici.
      E così via. Inoltre gli stessi canoni di bellezza naturali che si applicano a persone, animali e natura in genere, oggi sono distorti da limiti sociali e morali che hanno anche effetti dannosi sulla nostra vita.

      Infine posso dire è che il compito dell’artista non è quello di divulgare messaggi (idee, messaggi morali, etici, sociali o religiosi, …). Coloro che lo hanno fatto e si sono guadagnati l’etichetta di artisti, sono degli usurpatori, e coloro che gli anno attribuito quell’etichetta sono ciechi.

      • Già, ma chi decide quale percezione del bello è naturale e quale contaminata da filtri sociali, morali, etici o religiosi? La “Fontana” di Marcel Duchamp è “bella”? E davvero il messaggio che divulga è irrilevante per il nostro giudizio?
        Io mi fermo qui. E mi scuso con Matteo per l’eccessivo OT.
        Ciao
        db

        • Se l’obbiettivo è valutarne la bellezza, si: il messaggio è irrilevante.
          Se l’obbiettivo è giudicarla, allora il messaggio è rilevante, ma non ha nulla a che vedere con l’arte (nota bene che ho usato due verbi ben distinti e anche il complemento oggetto, non a caso, non è lo stesso).

          Quanto a come decidere quale percezione del bello sia senza filtri e quale no, non è tutto bianco e tutto nero. Anche la persona più condizionata dell’universo, ha degli spiragli di naturalezza. Basta stare attenti a coglierli. A volte non è facile anche perché siamo costantemente oppressi dalla pressione sociale. Persino quando andiamo in una galleria d’arte non siamo immersi in un’ambiente neutro, libero da condizionamenti.
          Chiaramente dipende anche dalla forza dell’opera. Ci sono opere sulle quali ben pochi sollevano dubbi. Tanto per dirne una, il David di Michelangelo. Uno lo vede e resta abbagliato. È imponente e sembra vivo. Sembra che stia per spiccare un passo verso l’osservatore ed è di una bellezza che lascia sopraffatti. Anche la Pietà è altrettanto sconvolgente.
          Quando un’opera sortisce questi effetti gli schermi sociali crollano miseramente a meno che non siano schermi davvero pesanti e allora il problema è nella persona stessa. Ci sono persone che si sentono al sicuro all’interno degli scudi sociali che gli hanno costruito attorno.

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