Tra gli aspetti poco indagati del fumetto italiano, sarebbe interessante ricostruire – prima o poi – le vicende delle principali polemiche critiche.
Per “polemiche critiche” non intendo solo i casi in cui il fumetto è stato oggetto di dibattiti di natura politico-istituzionale, già inclusi (anche se di rado) nella storiografia sul mezzo. Ad esempio, la serie di interventi con cui nel 1950/51, tra le aule del Parlamento e le pagine della rivista “Rinascita”, si affrontarono Palmiro Togliatti, Nilde Jotti o Gianni Rodari, intorno all’idea di una “influenza nefasta” (parole della Jotti) del fumetto, alimentata da concetti vecchi (semplificazione dei linguaggi, rappresentazione della violenza) e nuovi (l’accusa di “americanismo”).
Molto meno note o ricordate sono invece le polemiche interne al dibattito propriamente culturale – letterario e artistico in primis – che hanno visto contrapporsi intellettuali, autori, artisti, studiosi su questioni di natura estetica o linguistica. Non molte, per la verità: anche questo, forse, un tratto peculiare della cultura italiana del fumetto, tanto ricca quanto sconnessa – salvo poderose eccezioni (Eco, Fellini, Vittorini) – dalla ‘normalità’ del dibattito critico-intellettuale.
Quale che sia la vicenda complessiva di queste polemiche, un posto non secondario riveste quella che, nel 1976, si svolse intorno al lavoro di Guido Crepax. Il critico d’arte della allora giovane testata La Repubblica, Giuliano Briganti, scrisse una recensione alla mostra di disegni di Crepax allestita dalla galleria romana Rondanini. Una mostra curata da un altro noto storico dell’arte, Maurizio Fagiolo dell’Arco, nello stesso contesto che in altre sale esponeva quadri di Emilio Tadini. Per presentare Crepax, in un testo – pubblicato nel 1975 a corredo dell’edizione Franco Maria Ricci di Histoire d’O, e riproposto in quella occasione dalla rivista della galleria “R” nel n. 3 – Fagiolo ne aveva paragonato i lavori a quelli di artisti concettuali o analitici come Giulio Paolini e Ugo Mulas.
Una nota. Il mio scopo, qui, è più nel riportarla alla luce che non nell’analizzarla. Tranne alcuni, brevi commenti qua e là. Ma nonostante questo, il testo è tanto: mi ci vorranno due post.
In quell’intervento il critico si era espresso in termini elogiativi, argomentando in modo opportuno e con una sensibilità – almeno al nostro sguardo di oggi – decisamente centrata:
Da qualche anno, tramite riviste e libri di evasione (apparentemente), Crepax fa un lavoro molto chiaro: un discorso sul linguaggio della comunicazione condotto con gli strumenti stessi della comunicazione. Era lo stesso discorso che a Milano, da un altro versante, faceva Ugo Mulas, la cui operazione (tautologica, analitica) del linguaggio fotografico ha richiesto molto tempo per venire accettata come parte integrante del campo dell’arte visiva. Spero che questo testo d’uno storico dell’arte non venga preso come “ludus criticus” ma come la seria proposta di considerare un lavoro “estetico” anche quello di Crepax.
Il primo argomento di Fagiolo: quello di Crepax è un fumetto che va inteso come discorso sul suo stesso linguaggio. Un fumetto riflessivo.
Dunque, vorrei dire che Crepax sta facendo da anni, sia pure con gradevole ironia, una operazione analitica: la stessa che fanno i giovani artisti che ci interessano (Paolini o Agnetti o Griffa), la stessa che fa De Chirico quando ritrova il se stesso di sessant’anni fa e auto-analizza il suo linguaggio del tempo perduto. Prima di raccontare storie anche avvincenti (Crepax fa un discorso realista e popolare molto più di tante “storie” e di quadroni tre metri per tre), porta avanti una sottile ricerca sul suo linguaggio specifico. […]
Crepax racconta cose non d’après nature ma, lavorando già su un mass medium, tramite i mezzi di comunicazione. Si spiega quindi lo spreco nelle sue pagine di hasselblad e nikon, kodak e cineprese: ogni immagine è un clic del diaframma, la pagina è una sequenza di scatti, perfino un foglio di “provini”. […]
L’immagine di Crepax è sempre “al quadrato”, non fine a se stessa, ma immagine sull’immagine. Dire che fa storie a fumetti è come dire che Lichtenstein copia le strips o che Warhol ruba fotografie. Avrà pure un senso il suo start come architetto e designer: e quindi il suo bagaglio di cultura visiva. A livello letterale si ritrova la citazione di Ronchamp o della Einsteinturm di Mendelsohn, delle splendide poltrone di Thonet o della scrivania di Van De Velde. A un livello più profondo, si trova la nascita di certe vicende come la donna dipinta che lascia la sua impronta (da Yves Klein), come la donna suppliziata (da Max Ernst).
Ma il critico non si ferma solo al tema dell’autoriflessività, del fumetto “al quadrato”. Ed entra nel merito, descrivendo il territorio sul quale questa riflessività si esercita. In un passaggio particolarmente condivisibile e azzeccato, Fagiolo analizza il linguaggio crepaxiano evitando di cadere nel tranello dell’analogia cinematografica, che tanto spesso ha condotto fuori strada i suoi esegeti (in un caso emblematico del cinema-centrismo che ha afflitto la fumettologia novecentesca, su cui mi sono soffermato qui). E giunge così, attraverso l’analisi di uno dei suoi grandi interpreti, a riflettere più specificamente sulle ‘proprietà’ del fumetto. Ovvero, sulla sua dimensione spaziale:
Ma c’è qualcosa di più. Crepax non fa sequenze di stripes, ma disegna la sua pagina (anzi, la doppia pagina) come un tutto unico: come un architetto progetta la pianta più funzionale per un edificio. La pagina è uno spazio di cui riappropriarsi, al modo di Mondrian o di Van Doesburg (nelle strisce in diagonale): e quindi si spiega la variabilità di spazi per ritrovare il tempo in un solo regard.
Niente comparazioni col “montaggio analitico” nel cinema ejzenstejniano, che in quegli anni andavano per la maggiore (in testi come, per esempio, il fortunato El lenguaje de los comics di Roman Gubern, del 1973): Fagiolo individua in Crepax le forme dell’arte post-figurativa. Un paragone assai più rilevante, per un artista in cui la composizione opera non sul piano delle relazioni tra singole vignette (‘sequenze di stripes’), ma sul piano dell’architettura generale della pagina, in grado di definire uno specifico sistema di relazioni tra di esse. Proseguiva Fagiolo:
Molte volte lo spazio è regolare (perfino con sezioni auree), più spesso irregolare in senso “psicologico”: ecco la pagina tessuta come una tela di ragno, ecco la pagina tutta di piccoli quadratini che trasmette il senso accelerato del tempo e del racconto, ecco la pagina rotta come un vetro dipinto, ecco la pagina in positivo che ha di fronte una pagina in negativo. […]
Il discorso è semplice: il fumetto è da sempre il caleidoscopio spaziale di fatti temporali. Crepax lavora nella lama di rasoio tra lo spazio e il tempo, non secondo la grande illusione di Cubismo e Futurismo, ma con nuovi accorgimenti. Ecco le stripes che ritrovano un’immagine archetipa dello spazio-tempo, i fotogrammi pre-cinema di Muybridge; ecco la pagina intera in cui l’immagine si attorciglia sinuosa su se stessa (l’archetipo serpente che si morde la coda); ecco la pagina composta in forma di calendario, la più moderna immagine del tempo.
Ecco il tempo della televisione (Anita): il processo tv non è altro che una sequenza di linee che aggregandosi spazio-temporalmente restituiscono l’immagine. Ecco il punto di vista: il sottinsu accelerato per esempio, o la stessa immagine (la prima pagina di “il bambino di Valentina”) vista contemporaneamente da tutte le angolature. Ecco due quadrati che ricompongono il volto di donna, ma indicano due tempi diversi; e al contrario ecco l’immagine unica (per esempio il corpo di donna suppliziata) composta in cinque stripes come un montaggio di foto alla Magritte. Ecco la piena pagina che è la rappresentazione dello spazio unico. Ecco il sistematico frammento (in Histoire d’O) dell’immagine in un terzo di pagina: concentra un accavallamento spazio-temporale, un collage di momenti diversi, un coito di strips.
E arriviamo alla polemica.
Assistendo alla mostra, e leggendo in quell’occasione questo testo ritornato disponibile, Giuliano Briganti – all’epoca uno dei massimi esperti di arte Barocca – ne scrisse una violenta, inappellabile stroncatura. Il pezzo, che occupava mezza pagina della sezione del quotidiano – allora assai intellettuale (ancora privo delle pagine sportive, per capirci) – iniziava prendendo la questione alla lontana, così:
INDISCRIMINAZIONE: la parola non è bella e la cerchereste invano nel dizionario della Crusca o del Tommaseo. Ma così come l’ha divulgata la psicologia analitica, è sulle labbra di tutti e, d’altra parte, non saprei trovarne un’altra più nobile che, nello stesso tempo, fosse altrettanto adatta a caratterizzare quella che mi sembra una delle costanti primarie della situazione culturale odierna.
Perché indiscriminazione vuol dire disconoscimento dei valori, e non di questo o quel valore ma della loro stessa esistenza determinante, vuol dire abdicare alla facoltà di giudizio, tradire il dovere di scegliere, di partecipare, di conoscere e di distinguere. E vuol dire anche rinunciare ad amare, o sostituire all’amore una ritualità mistificatoria, perché amare è tutte queste cose insieme: scegliere, partecipare, conoscere e distinguere, credere nel valore.
Senza troppi freni, la premessa di Briganti si allungava con (notevole) prosopopea:
Non voglio soffermarmi ora sulle origini dell’odierno dilagare dell’indiscriminazione che, fra l’altro, può imputarsi forse anche al fatto che abbiamo scherzato e continuiamo a scherzare troppo proprio sui valori e sui significati, ricalcando alla lettera i modelli di un antico scherzare che era nato però come sacrosanta e creativa reazione ai massacri perpetrati in nome delle idee ricevute, come legittima lotta contro i falsi valori, la quale lotta portava con sé.
Il ragionamento prosegue con una tirata sulla critica scriteriata, definita “elettrodomestica” ovvero “tuttofare”, e – ben oltre la metà del pezzo – giunge infine al cuore della stroncatura, con i suoi contro-argomenti:
So che una lavatrice è molto utile ma che altrettanto non può dirsi di quel genere di critica tuttofare o elettrodomestica cui ho accennato. La quale può portare anche al disastro di prendere per buoni i disegni di Guido Crepax esposti a Roma in questi giorni alla bella galleria Rondanini.
Questo banalissimo disegnatore di fumetti, dotato di un’abilità davvero lugubre, che confondendo erotismo con onanismo offre ai giovani inesperti liceali in fregola un cocktail di Playboy, Crazy Horse, donnine art déco e suppellettili falso floreali, che crede di toccare le punte più alte del sadomasochismo disegnando lividi e staffilate sui culi longilinei delle sue Valentine o col particolare di una frusta fra le mani adunche, naturalmente, di un vecchio signore con la camicia a pizzi, resti nelle edicole di via Veneto, dove sta benissimo, e lasci perdere le gallerie. Dove davvero non c’entra o almeno non dovrebbe entrare, nonostante possa fregiarsi di attestati di Alain Robbe-Grillet o di Roland Barthes. O, mi perdoni, dell’amico Maurizio Fagiolo dell’Arco. Al quale vorrei chiedere, senza che si arrabbi, come si può mettere sullo stesso piano Crepax e un artista serio e pensoso come Giulio Paolini. E spiace che questa mostra di disegni, frequentatissima da liceali in fregola, si accompagni a quella ricca d’impegno di Emilio Tadini […]
Gli argomenti chiave della sua stroncatura non sono troppo numerosi, ma sono chiari e, per certi versi, “di fondo”. Due riguardano direttamente Crepax:
- la sua discutibile abilità nel disegno
- il suo sfruttare semplici pulsioni adolescenziali
Un argomento, invece, è rivolto più alla critica e, sullo sfondo, alla società che la alimenta e amplifica:
- la “confusione di valori” che hanno permesso un indiscriminato accostamento tra Crepax e artisti ‘seri’
Infine, il quarto. Che non è più un vero e proprio argomento. Piuttosto, una nitida, sintetica quanto drastica invettiva :
- l’inappellabile giudizio di non-artisticità. Di cui l’invito a riconsiderare la presenza di Crepax nei contesti istituzionali (galleristici) dell’arte ne è una perfetta – e classica – rappresentazione plastica.
E questo è quanto. Ovvero, per quanto sono in grado di ricostruire al momento, il più duro e diretto attacco rivolto in Italia a un singolo fumettista. Lanciato peraltro dalle pagine di una testata importante e di crescente influenza, all’epoca, nel mondo della cultura.
Una polemica fondata su quattro – o meglio, tre – argomenti. Che generò una ulteriore eco nelle settimane successive, sulle pagine di un’altra testata rilevante: Panorama. Ma questa ve la mostrerò nel prossimo post, domani.
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