Occupy è ormai materia (da fumetto) mainstream

Dell’impatto del movimento Occupy sulla porzione ‘fumetto’ dell’immaginario collettivo, mi è capitato di scrivere diverse volte, nell’ultimo anno e mezzo. Inevitabile, vista la quantità e varietà di legami sia con il versante simbolico (dalla diffusione della maschera di V nei cortei, alla polemica Miller/Moore, alla interpretazione del fenomeno da parte di Nolan nell’ultimo film batmaniano) che con quello editoriale del fumetto (dai reportage disegnati di Susie Cagle alle antologie autoprodotte per finanziare i movimenti).

La più recente tappa in questa traiettoria è una evidente appropriazione del “fenomeno Occupy” da parte del fumetto americano più mainstream, i comics di supereroi. DC Comics ha infatti diffuso da qualche giorno la prima immagine promozionale per il lancio di due serie previste in maggio, The Green Team e The Movement, che chiama in causa esplicitamente lo slogan di Occupy, quel 1% versus 99% che abbiamo imparato a conoscere (e adottare) ormai sempre più spesso anche nel dibattito politico nostrano.

dc-green-team-movement

Di queste due serie con protagonisti (soprattutto giovani) dotati di superpoteri, The Green Team incarna il fronte dell’1%, presentando alcuni ragazzini smisuratamente ricchi che cercano di usare la propria ricchezza per il bene del mondo. The Movement rappresenterebbe invece la massa del 99%, di cui pare racconterà le azioni attraverso le vicende di alcuni cittadini con superpoteri, sì, ma senza altro potere (politico, s’intende).

Come ha notato sarcasticamente Graeme McMillan per Wired, in questo lancio c’è un bel paradosso. A dare voce alle (reali e/o immaginarie) istanze del 99%, sorto come reazione contro lo stra-(super-?)potere delle corporation, è il secondo editore di fumetti negli USA, parte di un conglomerato multinazionale che genera circa 12 miliardi di $ l’anno. Un paradosso non nuovo, peraltro: proprio presso DC Comics apparvero V for Vendetta o The Invisibles, ancora oggi ricordati tra le più fulgide parabole antisistema nell’intera storia del fumetto di supereroi. Eppure, come ha notato un tizio scelto non a caso, ovvero il curatore dell’antologia Occupy comics, la DC Comics di oggi pare assai meno credibile di quella all’epoca dei seminali lavori di Moore o Morrison:

sebbene DC Comics abbia contribuito a lanciare l’epopea anarchica di V For Vendetta oltre vent’anni fa, mi pare piuttosto inverosimile che possa lanciare qualcosa di simile oggi. Tra lo smantellameno della linea Vertigo e la “mostrificazione” di Watchmen, l’anno appena trascorso ha dimostrato che DC non è un approdo sereno per gli autori coraggiosi non è un posto sereno per gli autori che vogliono raccontare storie che potrebbero ispirare cose come Occupy, a meno che non si tratti solo di sfruttare commercialmente la cosa.

Mainstream o non mainstream, di per sé, non è quindi sufficiente. Ma il mainstream dei fumetti di supereroi odierno è diverso da quello di un paio di generazioni fa, e non sembra più credibile come sponda per un immaginario politico autenticamente antagonista. Basti pensare anche al fatto che in questi giorni, il boss DC (Dan DiDio), si è sentito di dovere delle scuse agli autori per l’annata ‘pasticciata’ della casa editrice, e questo durante un momento cruciale come il summit creativo annuale tra editor, autori e dirigenti.

E’ anche vero, però, che non possiamo dimenticare come tale riappropriazione pop(ular) e mainstream di Occupy abbia a che vedere anche con la natura stesso del movimento, ‘fallito sul campo’ per le proprie stesse carenze politiche, strategiche e comunicative (il boomerang di una comunicazione talvolta più “fàtica” che focalizzata).

In fondo, siamo di fronte alla stessa questione cui accennavo ieri. E’ il tema della ‘posizione’ dei supereroi nell’immaginario di oggi: less ethics, more aesthetics?

Lettori di fumetti (USA), questi sconosciuti: i dati DC

Tra le caratteristiche principali dell’editoria di fumetto, una di quelle su cui insisto spesso è la scarsità di elementi conoscitivi sul suo pubblico. Detto altrimenti: quello che gli editori “sanno” sui lettori è un sapere più informale che formale (ovvero: dati e misurazioni).

La conoscenza dei consumatori da parte dei produttori, nel fumetto, è stata storicamente guidata da quella che Fausto Colombo ha descritto come “percezione empatica” dei gusti del pubblico, ovvero dalla condizione di forte prossimità sociale e culturale tra creatori/editori/lettori. Una prospettiva che ha messo in secondo piano gli strumenti più moderni e maturi di conoscenza del pubblico, cioé quelle “ricerche di mercato” il cui obiettivo è descrivere, monitorare e analizzare i lettori: i loro profili sociodemografici, i loro comportamenti, i gusti e le progressive trasformazioni di tutti questi aspetti.

Per questo le indagini di mercato sui lettori di fumetto, commissionate – come è comprensibile, in questo caso, dalle sole major – sono “oggetti rari” abbastanza interessanti. Soprattutto quando vanno al di là dei meri test di prodotto (focus group utilizzati per preparare e/o affinare il lancio di nuove testate).

L’editore DC Comics ha commissionato una ricerca (condotta da A.C. Nielsen), presentata al recente meeting dell’associazione di retailers Comics Pro a Dallas, sui lettori del recente crossover-evento The New 52, lanciato lo scorso settembre.

I dati principali:

  • il 70% degli acquirenti di The New 52 erano lettori ‘forti’ di fumetti, mentre circa il 5% erano i lettori “nuovi” ai comics.
  • meno del 2% aveva sotto i 18 anni, e il 2% oltre i 55 anni (13-17: 1%-2%, 18-24: 14%-22%, 25-34: 37%-42%, 35-44: 27%-35%, 45-54: 7%-11%, 55+: 2%)
  • il 93% erano maschi.
  • il reddito medio, per oltre il 50% dei soggetti, era sopra i 60.000 dollari/anno.
  • rispetto al rapporto digitale/onpaper, il 57% dei soggetti che aveva acquistato la versione digital ha dichiarato di avere letto anche la versione cartacea, mentre solo il 16% dei lettori ‘cartacei’ ha detto di avere acquistato la versione digitale.
  • ben il 48% dei lettori ‘digital’ sarebbe oltre i 35 anni.

Sulla “qualità del dato” preferisco non pronunciarmi, perché non conosco tutti gli elementi necessari (l’impianto metodologico nei dettagli). La tecnica d’indagine pare essere quella del questionario strutturato, somministrato a campioni reperiti in tre modi differenti: uno di clienti di fumetterie (167), uno online (5.336) e uno di clienti della versione digital (676, reperiti non so bene come).

Mi limito quindi a tre considerazioni:

– in generale, pare una buona fotografia di un fatto mai troppo sottolineato: i comics di supereroi, oggi come oggi, sono un prodotto per un pubblico ben diverso dall’infanzia, preadolescenza o adolescenza.

– pare che questa (queste?) iniziative editoriali siano utili a sostenere il fatturato, ma non aiutino certo a espandere il perimetro del mercato (leggi: nuovi pubblici).

– e pare che gli acquisti ‘digital’ – come ha raccontato a ICv2 John Rood (VP Sales, Marketing and Business Development per la DC) – siano da considerare “addizionali” su quelli cartacei: il business del fumetto digitale non starebbe sostituendo ma amplificando il consumo.

Non molto, se volete. E per altri dettagli e commenti, potete andare qui o qui.

Ma nemmeno così poco, di fronte a stereotipi antichi (i fumetti di supereroi come prodotto per kids/teen) e recenti (digitale versus cartaceo).

Prima di Watchmen, prima della Storia

Intorno alla notizia di Before Watchmen – il multi-prequel del fumetto di Alan Moore e Dave Gibbons – si è scatenato un certo trambusto mediatico.

A un primo sguardo, mi pare che nei commenti e opinioni intorno all’iniziativa si siano intrecciate quattro posizioni. Che sono in realtà articolate – tra favorevoli e contrari – in due modi diversi di impostare la discussione: il primo riguarda la legittimità dell’operazione, e il secondo la sua pertinenza artistico-culturale.

  • Legittimità: il nodo è la sua legalità o meno. C’è chi riconosce 1) che i diritti siano pienamente in mano a DC Comics, e chi ritiene 2) che Moore sia stato defraudato. Qui emergono le prime contestazioni dello “sfruttamento commerciale”: non si poteva fare, e la creazione di Before Watchmen è una mera operazione di appropriazione – una sorta di esproprio – della proprietà intellettuale di Moore, visto il suo grande appeal sul mercato. Un furto, insomma.
  • Pertinenza: ovvero il tema del “rispetto dell’opera”. Che per qualcuno 3) è pienamente rispettata (e persino in sintonia con il metodo e il progetto “originario” di Moore), mentre per altri 4) la creazione di Before Watchmen costituisce uno sfregio, un vulnus all’identità di quel lavoro unico, che ne esce offeso direttamente o indirettamente. Watchmen è un’altra cosa: è un’opera unica, che può essere proseguita solo da Alan Moore, dicono gli scontenti. Le contestazioni dello “sfruttamento commerciale” prendono qui una piega ‘etica’: non si doveva fare, e Before Watchmen è un prodotto non pertinente rispetto a tale unicità, un gesto eretico che ne ferisce lo statuto creativo irripetibile. Una speculazione senz’anima, insomma.

Dal mio punto di vista sono tra i favorevoli sia sul primo che sul secondo versante del dibattito.

Condivido la posizione 1, nel senso che tendo a ritenere corretta – almeno stando alle informazioni che abbiamo – l’applicazione del diritto d’autore da parte di DC, per cui Moore firmò a suo tempo un contratto secondo il quale i diritti restavano all’editore. Chi propende per la sua illegittimità, si affida a quanto riferito da Moore 25 anni fa, ovvero il possibile mancato rispetto di una clausola (la continuità delle ristampe) nell’anno successivo alla prima edizione, il 1987. Senza conoscere le carte è possibile sbagliare, ma lo stesso Moore ha posto in essere un comportamento dirimente, almeno fino a prova contraria: ha dichiarato di non volere fare causa a DC Comics.

Ma al di là del tema legale, condivido anche la posizione 3. E qui perché al centro del dibattito c’è un prodotto e un mondo finzionale. Che è difficile non considerare, al di là dei vincoli legali, sempre e comunque “espandibile”. Sono le regole dell’immaginario: normale e persino auspicabile che si possa riprendere e/o espandere un universo ricchissimo. Hanno ragione quindi coloro che affermano “Moore si sbaglia”, ricordano esempi classici – da Alice a Pinocchio – e persino gli stessi lavori di Moore (la Lega degli Straordinari Gentleman – sebbene lo specifico mix di characters e le loro interazioni sia opera dello scrittore). E ha ragione Paolo a dire che, citando Moby Dick, Moore mente sapendo di mentire. Non a caso è proprio sul punto della “pertinenza” che i fans propensi alla posizione 4 cadono in contraddizioni paradossali, sconfinando nel patetico [ho la nausea, ma comprerò tutto] come è accaduto – per esempio – al giornalista Rich Johnston, che ha scritto:

I find myself torn. I enjoy and respect the original Watchmen […]  Yet I know, in my heart of hearts, if it did actually exist I would buy it. Because I do want more Watchmen, even if only on a surface level […] I know I will buy it and I know I’ll enjoy reading it, even if my stomach is rotting away.

Pur non essendo un ‘fan’ di Alan Moore (non ho mai condiviso l’enfasi su Watchmen da parte di molto fandom ‘generazionale’) credo tuttavia che l’iniziativa sia criticabile e non condivisibile. Ma su tutt’altro piano. Ovvero il contesto storico in cui è maturata questa decisione: i tempi della Storia (del Fumetto) entro cui si collocano oggi Watchmen e Moore.

Watchmen e Moore rappresentano, per la cultura del fumetto nel 2012, elementi centrali. Un simbolo di una traiettoria culturale (l’opera), e un simbolo della consapevolezza di questo percorso (l’autore). La Storia li attende, ma già da tempo prepara loro un ‘posto’ speciale: quello di un’opera e un autore che ne hanno segnato l’evoluzione per una porzione importante del suo percorso; di certo, l’evoluzione di quella – consistente – fetta di immaginari e di mercato in cui opera DC Comics. In una battuta: la barba di Moore potrebbe non sfigurare tra i Miti d’oggi di un Roland Barthes anni 2000.

Watchmen e Moore vivono già, quindi, in un pezzettino di quella Storia. E come è ovvio, convivono coi legittimi detentori dei diritti. Opera, creatore, proprietà: tre attori in scena cui si prospettano – come sempre nella Storia degli immaginari dell’industria culturale – due strade: restare uniti, o separarsi.

Tutti e tre prima o poi potrebbero sparire dalla scena, e il mito esaurirsi e spegnersi nell’oblìo. Di certo, in questo caso, sparirà per prima la figura dell’autore, la cui morte presto o tardi lascerà sul campo solo una coppia: l’opera, e i suoi diritti.

Ed è qui, nella gestione di questa contingenza storica – la convivenza opera/autore/proprietà – che è sorto un conflitto.

Perché uno dei tre attori ha scelto di operare contro l’altro. Ovvero DC ha scelto di praticare oggi, e in queste determinate condizioni, quella espansione che la Storia avrebbe comunque reso pertinente, prima o poi.

Ne consegue che se l’autore non può (o comunque non vuole) contestare la legittimità di Before Watchmen, né può smentire (a meno di mentire…) la sua pertinenza rispetto alla consueta vita degli immaginari, può solo fare una cosa: seminare dubbi. E uno in particolare. Criticarne cioé il “posto” nella Storia, quella credibilità che non viene dalla legittimità legale, né dalla pertinenza culturale: la sua autorevolezza. E Moore, che incarna (ben più di Gibbons) l’identità unica, individuale, di quel prodotto entrato nella Storia, può correttamente affermare: B.W. non è Watchmen, perché Watchmen c’est moi.

Il punto non è affatto se sia pertinente o eretico mettere mano a Watchmen. Ma se abbia un senso farlo contro il suo creatore, mentre questi è in vita, è riconosciuto come un simbolo cruciale, e pensa il destino di Watchmen in modo differente. Sebbene legittima e pertinente, Before Watchmen è solo inopportuna storicamente: nel 2012 a incarnare l’identità di Watchmen c’è il suo autore, vivo e in grado di esprimere una visione dell’opera (incluso il suo stop; o la sua ripresa solo a certe condizioni, creative ed economiche). Come disse a Wired:

Mi hanno offerto la restituzione dei diritti su Watchmen se in cambio fossi stato d’accordo a pubblicare alcuni stupidi prequel e sequel. Mi sono limitato a rispondere loro che se lo avessero detto dieci anni fa, quando io lo avevo domandato, la cosa avrebbe potuto funzionare. Ma oggi come oggi non rivoglio Watchmen. Di certo non lo voglio indietro a queste condizioni.

Insomma: un conto è il principio generale della Storia, secondo cui qualsiasi immaginario può (e deve) essere rielaborato per sopravvivere a se stesso; un altro è che questa rielaborazione sia usata contro il suo creatore, mentre egli sarebbe stato persino disponibile a proseguire il lavoro sull’opera.

Delle due, quindi, l’una:

– se i diritti sono stati illegittimamente sottratti a Moore, che a suo tempo avrebbe maturato le clausole di scadenza del contratto, l’azione di DC Comics apparirà come una strategia particolarmente aggressiva di sfruttamento commerciale del ‘genio’ creativo. Senza dimenticare che, mezzo secolo dopo il caso Superman (sempre DC Comics), essa suona come un gesto ancora più violento e anti-storico: un business-is-business che contrasta, ormai, non solo con il vecchio buon senso, ma con le best practice dell’industria culturale più moderna ed equa nei confronti degli autori.

– se i diritti sono legittimamnete in capo a DC, l’azione dell’editore creerà comunque un sottile ma profondo danno di immagine, causato dal conflitto sulla credibilità – non riconosciuta dal creatore – dell’operazione. Un danno che sarebbe stato possibile evitare, semplicemente non praticando queste espansioni mentre il “mito d’oggi Alan Moore” è ancora attivo. Secondo alcuni, proprio questa sarebbe stata la scelta compiuta da Paul Levitz mentre fu in carica come Presidente della DC Comics, fiero oppositore delle richieste di Moore, ma al contempo contrario a creare un sequel senza il consenso del creatore.

Nel primo caso, non vedo perché non comportarsi come gli editori o i produttori (di cinema, musica, tv, digital…) più equi: unirsi ai grandi creativi è una risorsa, e non una menomazione (a meno che l’orizzonte progettuale non sia solo il bilancio triennale). Nel secondo, trovo saggio il comportamento di Levitz, e non vedo perché non proseguire (a meno che l’orizzonte progettuale non sia la redditività short-term, anche a costo di operazioni prive della credibilità/autorevolezza necessaria per restare sul mercato a lungo, accompagnando i tempi lunghi della Storia; tempi che includono la scomparsa degli autori).

Sullo sfondo di questa forse piccola, ma di certo esemplare vicenda di conflitti nel campo dell’industria culturale, resta sul tavolo il prodotto: Before Watchmen. L’espansione che alcuni – esclusi quindi i fans più ideologici (inciso: quanti sono? Una campagna di boicottaggio, per esempio, non sta dando grandi frutti) – leggeranno con interesse. O meglio: l’espansione che alcuni leggeranno se, oltre al piacere di conoscere le prime raminificazioni immaginarie di un’opera significativa, sembrerà un progetto stimolante.

E qui non so voi, ma questo è il punto in cui mi sono cascate le braccia. Per due ragioni:

gli autori. Che non sono paragonabili a Moore. Certo, difficile fare paragoni. Ma allora: non è questa l’occasione per tentare di giocare nuove carte? Ovvero: possibile che l’espansione di quell’opera corale sia stata affidata a “firme” (mentre Moore non lo era, a suo tempo) e a creativi assai standard (nessun profilo eccentrico o da innovatore, per quanto si tratti di bravi professionisti)? Inciso: Grant Morrison ha rifiutato di partecipare; per fortuna conosciamo la sensibilità di Darwyn Cooke, forse il solo a garantire una cifra stilistica in grado di iniettare credibilità a un prequel simile.

il concept. Non è una miniserie, ma 7 miniserie da 4/6 episodi. Ovvero: possibile che l’espansione di un’opera corale sia progettata per singoli character, come nelle più canoniche tra le serie di supereroi? Insomma: possibile che la direzione artistica non abbia prodotto un’idea diversa dall’eroe (per periodi, per luoghi, per temi, per…concept differenti)?

Chissà, forse è uno scherzo. O un complotto: qualcuno, lassù dove si decidono i destini dei fumettologi (Coconino County?), vuole trasformarmi in un fan di Alan Moore.

Nonostante Before Watchmen, direi che resisterò.

Da iPad = Marvel, a KindleFire = DC?

Ricordate i lontani tempi del lancio di iPad, in cui la app Marvel si trovò a furoreggiare?

Il fresco Kindle Fire di Amazon, come sapete, sta facendo discutere, da brava next big thing di stagione. Ci si attende possa aprire il mercato dei tablet (dominato da iPad), grazie a una diversa politica di prezzo e un modello di business differente.

Il punto, qui, è naturalmente: che genere di presenza avrà il fumetto nel contesto del nuovo device/servizio? E in particolare: chi saranno i primi player fumettistici a giocare la partita?

Una prima risposta è arrivata dalle immagini ufficiali. Fra gli screenshots delle prime app, diffusi da Amazon, era ben visibile il leader del fumetto digitale, Comixology:

Una seconda risposta, più articolata, viene da un’altra notizia: l’accordo tra DC Comics e Amazon. I fumetti DC saranno infatti acquistabili tramite lo store di Kindle. E qui viene il bello: non si tratterà però degli albi mensili, lo standard 20-24 pagine dei comics USA. Ad essere in vendita saranno i fumetti in formato “libro”: graphic novel e edizioni in volume/raccolte. Per dire: Watchmen o Dark Knight Returns. E a 9.99$: circa metà dell’edizione cartacea.

Una simile scelta non era scontata, perché introduce una (parziale) discontinuità rispetto alla presenza dei comics mainstream nel mondo dei tablet. E provo a sottolineare i tre aspetti che mi sembrano più rilevanti:

  1. ne risulta confermata – e ben sfruttata da Amazon – la storica forza della DC nel produrre fumetti adatti al formato libresco: i numerosi graphic novel, e le tante serie limitate (vedi Vertigo) progettate sistematicamente per archi narrativi. DC è un editore di fumetti popolari in cui anche il mero “repackaging librario” suona più naturale e consolidato.
  2. si segnala l’avanzata del modello ‘libro’ anche nell’ambiente (del fumetto) digitale, grazie a quei nuovi devices – tablet e e-reader – che offrono esperienze d’uso più adatte alla lettura ‘libresca’. E mentre iPad si sta rivelando un successo per molte app-gioco (entertainment) e app-risorse (produttività), Kindle si posiziona inevitabilmente come più vicino al mercato della lettura. Da cui la domanda per il futuro: il fumetto si troverà “più a suo agio” nel primo o nel secondo contesto?
  3. la presenza di DC, particolarmente avvantaggiata nei formati trade, si configura come un nuovo matrimonio tra fumetti e partner digitali efficace, in grado di valorizzare il vantaggio competitivo di un editore rispetto ai competitor. Come iPad pareva, per Marvel, l’ambiente ideale per piccole app spettacolari tutte-da-leggere (le serie di comics più di tendenza, cioè quelle Marvel), così Kindle Fire pare, per DC, il luogo ideale per grandi libri tutti-da-guardare (graphic novel, cioè quelli DC).

Insomma: è la concorrenza, bellezza. Anche nel fumetto digitale.