Giornalismo e fumetto, ovvio

Da sabato 20 il Corriere della Sera sarà in edicola con una collana di allegati fino a pochi anni fa impensabile. Si chiama Graphic Journalism, e presenta una selezione di 20 opere del cosiddetto “fumetto di realtà”, tra libri di vero e proprio comics journalism, graphic memoir e biografie storiche.

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Tre dettagli, dunque. E una semplice premessa: sono felice che questa collana sia partita. Anche se dubito possa attendersi cifre comparabili a quelle – per citare la concorrenza – dell’attuale collaterale “Dylan Dog – la collezione storica a colori” proposto da Repubblica. Ma il solo fatto che possa portare in edicola, e con il marchio del principale quotidiano italiano, capolavori – sì: capolavori – come ben due libri di Joe Sacco, o lavori pure straordinari come Morti di sonno di Davide Reviati, Persepolis di Marjane Satrapi, Quaderni ucraini di Igort e altri, mi pare un segno positivo, da registrare con il dovuto ottimismo. Perché questa collana offre una sensata dimostrazione del lavoro di una generazione di autori, editori e critici, impegnati da circa vent’anni in un’idea di fumetto che ha raccontato la realtà, insistendo sull’osservazione e l’analisi del presente, del territorio, della Storia. Non molto – non abbastanza – ma qualcosa di utile e giusto, questo sì.

Il primo dettaglio, dunque: ai testi introduttivi ci alterneremo Paolo ed io. Non ci capitava dai tempi della collana Graphic Novel con Repubblica. Per i collaterali destinati a vendere un decimo di Tex, siamo gente allenata.

Secondo dettaglio, più importante: di 20 uscite previste, 19 sono riedizioni di titoli già usciti, mentre una è un inedito. Si intitola La seconda volta che ho visto Roma, l’autore è Marco Corona, e dalle pagine che ho visto è uno splendido, immaginifico volo pindarico. Uno dei graphic novel italiani più interessanti dell’anno (fidatevi – e prendete nota).

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Il terzo dettaglio: questa selezione si avvicina, fatta la tara dell’inevitabile baricentro nel catalogo Rizzoli Lizard, all’idea di quello che pare un vero e proprio Canone nascente del comics journalism contemporaneo. La sola presenza di Delisle e Sacco occupa il 25% della collana – il che corrisponde all’idea del comics journalism che ormai è penetrata nel mondo stesso del giornalismo italiano. Un mondo che, a quanto pare, sembra avere definitivamente accettato il fumetto nel proprio orizzonte espressivo e metodologico. E se lo ha capito persino l’Ordine dei giornalisti della Lombardia – qui sotto la copertina di un recente “Tabloid”, il periodico dell’Ordine – abbiamo una speranza: che la presenza del graphic journalism, ormai, sia qualcosa di ovvio. Un linguaggio fra i tanti, da insegnare ai giornalisti che verranno.

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Le Pussy Riot secondo Davide Toffolo

Forse avete già visto queste due tavole sul domenicale del Corriere. Forse su Facebook, o altrove. Comunque sia, le condivido anche io. Per due ragioni:

-> con le storie per La Lettura, mi pare ormai chiaro, Toffolo si sta divertendo molto, sfruttando niente male il maxi-formato del quotidiano. Per esempio usando tecniche di colorazione ultrapop che raramente gli abbiamo visto usare; o costruendo pagine con un impianto al contempo unitario/gigante e frammentato in vignette con trovate brllanti. Il che mi fa ulteriormente riflettere a quanto hanno fatto Paolo Bacilieri, o Marco Corona, o altri con quel supporto: chi più chi meno (chi meglio chi peggio) ne stanno approfittando per davvero, lavorando sulla monumentalità e sulla spettacolarità. Quelle due pagine, per quanto orrendamente chiamate ‘graphic novel’, si stanno insomma rivelando come una sede interessante. Sul piano linguistico, persino meglio delle due pagine su Internazionale (sui contenuti non credo: si fatica a trovare una ‘linea’, e la discontinuità degli esiti rimane notevole).

-> in questa storia, inoltre, Toffolo ha fatto un servizio utile e prezioso. Nei mesi scorsi, infatti, gran parte dei media si sono concentrati spesso sul “mostrare” le Pussy Riot più che sullo ‘spiegarle’. Non senza il cinismo di associare (travestire?) la loro provocazione politica con lo stereotipo mediale della sexy bad girl. Eppure, che siano sexy o meno, il punto era e rimane ben altro. Per questo Toffolo più che ritrarle e sottolinearne l’energia fisica, le ha lasciate parlare. Mettendo in scena le parole di una di loro (Nadia), ovvero quanto aveva detto dopo la sentenza al processo lo scorso Agosto:

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Il solito problema: recensire fumetti (mytici)

Qualche giorno fa ha debuttato, in allegato al Corriere, una delle novità fumettistiche più attese degli ultimi mesi: Mytico!

L’attesa era naturalmente per la novità del contesto produttivo: che il primo quotidiano italiano, editore (c’era una volta…) del settimanale più importante nella storia fumettistica nazionale, si decidesse fare il passo dal puro licensing alla produzione, è già in sé una notizia. Una di quelle che, prima ancora di entrare nel merito del prodotto, meritano certamente attenzione.

Registro che la prima reazione da parte di chi abitualmente segue e commenta questo genere di prodotti (la “stampa specializzata”, diciamo) non è stata troppo positiva: mixed feelings, direi. A voi la misurazione in Rotten Tomatoes:

  • Un “buon fumetto popolare senza pretese” (Mangaforever)
  • una “scommessa vinta” con qualche distinguo sulla lingua (Comicus)
  • un “buon punto di partenza” (House of mystery)
  • un’inappellabile e stroncante “fallisce il suo obiettivo fin dall’ideazione” (Conversazionisulfumetto)
  • e un “senza dubbio coraggiosa – malgrado i miei dubbi” (Mangaforever).

Nel complesso, per quanto può valere un’approssimazione del genere – e ad oggi – sembra di vedere una canonica ‘sufficienza risicata’ (nei voti di Mangaforever: 6 e 6,5).

E comunque, vorrei parlare d’altro. O meglio vorrei per un momento lasciare da parte il giudizio di merito sul prodotto (pessimo? so-and-so? buono?). E occuparmi delle reazioni stesse. Perché quel che mi ha più sorpreso nel ‘caso’ Mytico, finora, è stata la scarsa qualità non tanto del prodotto, ma delle sue recensioni.

La più banale delle premesse: non ne faccio una questione né personale (gli estensori delle recensioni) né di testata. Ma il contenuto di molte fra quelle recensioni mi è parso così sorprendentemente privo di argomenti, da renderlo un caso su cui spendere qualche parola. Perché Mytico! sembra essere stato, almeno finora, un catalizzatore – ‘epico’? – della sciatteria dilagante nella critica fumettistica (online) italiana.

Per privo di argomenti mi riferisco ad alcuni passaggi, per esempio, di questa recensione:

ha una forte carica sperimentale che lo rende interessante, tuttavia il risultato finale non appaga completamente il lettore.

“Carica sperimentale”. Da lettore, di fronte a questa affermazione, drizzo le antenne, e mi dispongo ad ascoltare. Per capire. Perché sapere che Mytico – non l’ho ancora letto: dovrei? – abbia una forte carica sperimentale può darmi una ragione per acquistarlo o, semplicemente, può essere la premessa a un discorso da seguire, un ragionamento con cui confrontare le mie aspettative, le mie idee. Mi dispongo ad ascoltare, eppure – eppure il testo non mi segue. Non mi vuole aiutare. Quali informazioni, quali frasi, quali parole dedica la recensione per indicarmi – farmi ‘capire’ – che siamo di fronte a un caso sperimentale? Nessuna. L'”idea di sovrapporre mitologia e comics”, frase seguente della recensione, che mette così sul piatto un altro tema degno di ascolto, “è una scelta che rende il prodotto appetibile per un pubblico giovanile”. Certamente: questi ‘eroi mitologici’ sono rivolti a bambini/ragazzi. Bene, è un fatto. Non del tutto nuovo, a voler dire bene, ma un fatto. La domanda iniziale, nel frattempo, rimane aperta: la “sperimentazione”, invece, in cosa consisterebbe? Forse lo sapremo un’altra volta. O da altri testi. Forse. Chissà.

dinamica sceneggiatura di Ascari che, da un lato, ha il merito di non annoiare

Posto che siamo di fronte a un fumetto d’azione (è il suo contenuto principe), parlare di sceneggiatura è passare dai contenuti alla tecnica/stile di scrittura. Per chi legge una recensione su una testata specializzata, un ottimo tema, in grado di soddisfare le aspettative di chi dalla ‘specializzazione’ si attende come è ovvio una discussione più ‘tecnica’, approfondita, con dettagli o ‘retroscena’ inappropriati sulla stampa generalista – per ‘specialisti’ che vogliono, appunto “qualcosa di più”. E qui, posto che sia legittimo distinguere fra stili statici e stili dinamici, piacerebbe sapere a cosa si riferisce questo giudizio sul ‘dinamismo’: ritmo? cambi di scena? inquadrature? La domanda rimane aperta: in cosa consiste una sceneggiatura “dinamica”? Forse lo sapremo un’altra volta.

Buona la prova grafica di Riccadonna che dimostra, tra l’altro, una certa originalità nella composizione delle pagine.

Innanzitutto un mistero: quel “tra l’altro”. Se oltre al layout c’è dell’altro, di cosa si tratta? E perché lasciarlo nel non detto? Il punto cruciale della valutazione sulla componente visiva, poi, è un’altra non-argomentazione: “composizione originale”. Perché da lettore mi aspetterei che le parole seguenti fossero destinate a questo, ovvero a fare capire anche a me le ragioni per cui qualcuno (il recensore, o io) potrebbe parlare di ‘originalità’. Ma anche qui il testo si ferma, non offre alcun elemento, e a chi legge non è dato capire se si tratti di un’originalità generale e assoluta (su cui parrebbe ovvio dubitare, col risultato di squalificare la recensione: enfasi fuori dalla realtà), o piuttosto di un’originalità rispetto a qualche termine di paragone. Peraltro inespresso. Altra domanda senza risposta: in cosa consiste questa “originalità compositiva”?

In un’altra recensione, un brano recita:

è evidente che l’autore intende essere il più popolare possibile (e non è un male) ma i testi mi paiono troppo semplici e la trama esile e avrei preferito maggiore profondità ma dopotutto questa iniziativa è rivolta ad un pubblico pre-adolescenziale.

Questa “evidente volontà di essere popolare” è un argomento che, di evidente, ha la tautologia. Come Tex Diabolik Topolino, questo è un fumetto popolare. Non è un’opera di avanguardia, o di ricerca. Lo sappiamo: è il Corriere. Dunque cosa vorrebbe dirci quell’ “essere più popolari possibili”? ‘Più possibile’ di cosa? E l’argomentazione si risolve in un avvitamento logico: essendo il target preadolescenziale… un autore non può che essere ‘troppo semplice’ e produrre ‘trama esile’; essendo il target preadolescenziale … un autore può voler essere più popolare (che è un bene), ma alla fine mica basta. Tradotto – con fatica – potrebbe suonare così: un fumetto popolare per ragazzini, “dopotutto”, non permette quel che qui si contesta. Una sciocchezza risibile, naturalmente, ma che si fonda su un’equazione tanto stereotipata quanto preoccupante, se praticata da chi “scrive di fumetto”: volenti o nolenti, fumetto popolare per bimbi = scarsa qualità. Un “dopotutto” che posso aspettarmi da sir Harold Bloom o da un professore di greco del liceo, ma che qui – la stampa specializzata, ovvero il bacino potenziale del migliore know-how – fa francamente impressione.

Il disegnatore fa un buon lavoro, riuscendo a caratterizzare visivamente ogni personaggio

Un disegnatore che riesce a caratterizzare visivamente i personaggi. Chi l’avrebbe mai detto. Una rarità, considerato quanti disegnatori non lo facciano, usando abitualmente stampini per riprodurre le medesime fattezze in più vignette possibile. O forse si voleva alludere ad altro: tutti i disegnatori sanno caratterizzare personaggi, ma questi sono stati particolarmente bravi. Queste caratterizzazioni hanno elementi di particolare valore, voleva dire: sono particolarmente ‘riuscite’. E questo potrebbe anche essere. E da lettore, mi dispongo ad ascoltare. Senza ottenere risposta, tuttavia: costoro sì che sanno caratterizzare… ma non si fa (sa) dire il perché. Altra domanda senza risposta: quali sarebbero gli aspetti di particolare cura o efficacia?

Insomma, mi fermo qui.

Peraltro scusandomi, per la pedanteria inevitabile di una simile discussione. Rimane però la sensazione, sconfortante, che queste recensioni dicano poco, o niente, del fumetto in questione. E che questo caso meriti almeno un poco di indignazione, come il mio post cerca di rappresentare. In modo un po’ piagnino, lo ammetto: mi perdonerete, ma così accade quando lo sconforto scocca intorno a casi che coinvolgono professionisti che stimo, e su tutti i fronti (il prodotto; le testate di queste recensioni; e la schiera di chi, giornalisti autori editori, va lamentandosi – chi in pubblico chi in privato – dell’uno come delle altre).

Vorrei allora ribadire una banalità.

Non c’è un modo di scrivere rencensioni, anzi. Anche in 500 battute. Ma ciò a cui servono è offrire informazioni (per presentare l’opera) e argomenti (per capirla/spiegarla/commentarla) – e qui ci sono informazioni, ma non argomenti.

Gli stessi autori e editori di fumetto popolare, sono tra le vittime di questa sciatteria. Perché se è vero che il “purché se ne parli” è un principio importante, la pochezza degli argomenti è una magra consolazione. Se una misura del riconoscimento e della crescita professionale, da sempre e in ogni campo, sono i discorsi che ne fanno i pubblici – indifferenziati (i lettori) o qualificati (la critica e i ‘pari’) – gli autori più motivati e consapevoli sono i primi a sentirsi sviliti dalla pochezza degli argomenti portati a loro favore (ma anche a disfavore): capire cosa si è fatto dalle opinioni altrui è normale, utile, proficuo. Ma se quel che si riceve è poco o nulla, coperto da una coltre di banalità e interesse fermo alla superficie (o, peggio, venato di adulazione), sono autori ed editori stessi a uscirne demotivati. Depauperati del valore – percepito o reale che sia – del proprio contributo.

A meno che… queste non siano altro. Non recensioni. E forse è proprio così: non sono recensioni, perché i loro testi promettono ma non mantengono l’obiettivo di discutere nel merito il prodotto. Sono altro. Segnalazioni, ‘brevisioni’ come le etichetta con accortezza uno di questi siti. Ma allora la domanda è duplice: 1) perché ostinarsi a chiamarle recensioni? e 2) cosa aggiungono, queste forme giornalistiche, ai lanci stampa?

Una sommaria risposta alla domanda 1) è che, nella prassi di chi progetta questi testi, c’è una “retorica della recensione” senza la recensione medesima. Una sorta di apirazione alla recensione. Ma senza il metodo, il mestiere, le “regolette”. E’ quello che in modo un po’ pomposo potremmo chiamare il “lato oscuro del fandom”. Ovvero quei casi in cui, per svolgere la propria (sana, e preziosa) missione di evangelizzazione culturale, invece di sfruttare la libertà di un contesto de-strutturato, lontano dai bisogni della produzione di comunicazione sottoposta alle regole del commercio (si pensi alla straordinaria energia dei collezionisti e dei loro database, dei loro raduni, di certa fanfiction, di tanto cosplay…), il fandom si confina nelle forme più ‘scolastiche’ del giornalismo e della critica, senza però darsi regole e buone prassi da usare come modello. Col risultato di praticare una critica che è più formulaica che sostanziale, più nelle intenzioni che nei risultati.

Una risposta alla 2) è che l’efficacia di questi testi ha a che vedere con la tendenza alla promozione del consumo tipica del giornalismo fandom-oriented (ne parlai tempo fa, qui). Ma in realtà con una visione parziale di questa stessa promozione: un fan-giornalismo acritico che abdica alla propria funzione, ovvero – rispetto alle proprie aspirazioni: promuovere il ‘buon’ fumetto popolare e non – rinuncia a un’interazione con prodotti/produttori fatta di richieste e pretese, stimolo e suggerimento, confronto e sane litigate. Portando argomenti, dettagli, temi, idee, ambizioni trasformative più o meno sensate. Come qualcuno ancora fa, per fortuna: penso all’eccellente blog Docmanhattan, forse il più compiuto esempio di fan-journalism di qualità nel 2011; o al sito verticale dei fans di Dylan Dog, DDComics. Una visione che invece fatica a trovare rappresentanza nei pur tanti webmagazine generalisti ‘dal basso’ che si limitano a piccole segnalazioni, comunicati e notiziole, recensioni stringate quasi solo descrittive e, non a caso, quasi sempre morbide come una carezza (nei rari casi in cui invece ‘mordono’, peraltro, rischiando di diventare vittime di una sciatteria opposta e contraria: le reazioni piccate o persino minacciose di alcuni editori/autori). Una critica amatoriale – come si diceva negli anni 70/80 – o un fan-journalism che, rispetto a campi come tv e videogiochi, insomma, pare vivere una fase di profondo sfarinamento, se non una vera e propria crisi motivazionale e aspirazionale.

E allora quel che dispiace è anche che ciò avvenga, in questa occasione, in un campo – la stampa specializzata italiana – che dopo decenni (esagero: dai ’60 ai ’90) spesso all’avanguardia in termini di qualità argomentativa e critica (da Linus a Sgt. Kirk a ilFumetto a Fumo di China a L’Urlo a Schizzo), pare vivere una fase poco felice. In cui la rete ha portato nuove opportunità (quantità, libertà di temi, formule e registri) ma anche nuove schiavitù (quantità, rapidità, sciatteria).

Non solo: dispiace tanto più quanto il caso di Mytico!, prodotto popolare che potrebbe avere ragionevolmente già superato le 50.000 copie, avrebbe meritato da chi presiede il territorio dell’informazione sul fumetto con impegno costante, quotidiano, energie critiche quantomeno proporzionate all’occasione. In un’Italia che, pur ricca oggi di spazi online dedicati alla discussione sul fumetto indipendente, d’autore, di nicchia, sorprende per la sempre cronica assenza di discussioni altrettanto attente sul fronte del fumetto popolare, Bonelli, Disney – o Mytico! – in primis. A favore o contro che sia.

Il dibattito sulla salute della critica sul fumetto – anche popolare – in Italia, che periodicamente torna a scatenare confronti, piccoli buriana, difese d’ufficio e una discreta produzione di alibi, è uno di quei (relativi) bisogni che casi come questo ci ricordano: c’è ancora bisogno di lavorare un sacco, per elevare la qualità dei discorsi sul fumetto dalla superficialità. Inclusa quella di certe sue recensioni.

Disegno satirico e giornalismo surrogato

Ha debuttato in edicola, tra i collaterali del Corriere, la collana Giannelli – la storia sono loro. Una raccolta piuttosto vasta (20 anni) di vignette del disegnatore satirico del primo quotidiano italiano. Ma soprattutto, per noi, un’occasione da manuale per ribadire un vecchio problema: il livello sconfortante in cui versa la cultura del disegno nell’informazione italiana.

Dalla presentazione online:

Giannelli, il grande vignettista del Corriere della Sera racconta 30 anni di vita italiana. Politica, attualità, costume: le migliori vignette di un autore di satira dal tratto inconfondibile, una matita affilata che non ha mai risparmiato niente e nessuno.

Il contenuto-tipo dei volumi è semplice: vignette, nient’altro che vignette. O meglio, le vignette (pagina destra) sono alternate a didascalie (pagina sinistra) che illustrano la notizia cui ciascuna vignetta è riferita, per offrire un po’ di contesto.

Anzi, un altro contenuto c’è, almeno nel primo tomo: un breve testo. Il cui obiettivo è ‘presentare’ il volume. E in cosa consiste la presentazione di un simile libro? In un articolo (di Marco Ascione) che offre un riassunto in tre pagine del periodo cui il volume si occupa. Un bignamino sulle notizie principali del 2011.

Nessuna parola, invece, sulla “matita affilata”, o sul “tratto inconfondibile” citate nel testo di presentazione. Emilio Giannelli è il protagonista di una collana in 11 volumi, ma del suo utilizzare il linguaggio del disegno (al di là del giudizio di valore) non si fa parola (alcune sue idee in proposito le trovate in una recente intervista).

E cose da dire ce ne sarebbero. Quantomeno, più che sulla affilatezza (assai discutibile nel paese dei Teja, Scalarini, Galantara, Altan…), sul suo essere “inconfondibile”. Perché per il Corriere il segno di Giannelli è senza dubbio un elemento di forte caratterizzazione grafica:

  • la sua linea sempre accompagnata dal tratteggio, con texture per abiti e oggetti, ha contribuito non poco a rafforzare l’identità cromatica della grafica di via Solferino: l’inconfondibile grigio Corriere.
  • la sua costruzione di corpi lievemente squadrati, legnosetti, si è sposata pienamente con l’identità un po’ ingessata del quotidiano (un tempo detto) “della borghesia produttiva”, o con i toni “istituzionali” del più tradizionalista tra i quotidiani nazionali.

Insomma, anche senza entrare nel merito dello stile e dei riferimenti, su un vignettista come Giannelli ci sarebbe da dire. Ma in quanto disegnatore, e non (solo) in quanto narratore (satirico) di certe notizie. Perché le vignette sono disegno, e non (solo) una forma – simpatica, semplice, visiva – di giornalismo. Insomma, il disegno satirico non è un surrogato del giornalismo.

Come è noto, in USA o UK l’attività di quelli che noi chiamiamo vignettisti è comunemente detta editorial cartooning. In Francia, dessin de presse. In entrambe i casi è evidente sin dal termine che il disegno ne è l’elemento costitutivo, la lingua con cui comunica.

In Italia, invece, l’uso della parola vignetta (rotonda, efficace, quasi musicale) si è accompaganto a una progressiva perdita di senso del disegno che in essa è sostanza. Per certi versi si può dire che abbia trionfato il “contenitore”: la vignetta come box, scatola grafica il cui contenuto (linguistico) è relativamente indifferente. Una visione del dispositivo para-teatrale, come il palco per uno spettacolo di burattini, per quanto immateriali.

Marionette disegnate, la cui presenza è giustificata da una funzione pseudo-giornalistica più che di de-formazione grafica del reale: questa è la condizione cui pare essersi ridotta molta satira disegnata italiana, sempre più distante dalla tradizione della caricatura. Un percorso perfettamente sintetizzato da un Vauro, passato ormai al ruolo di cabarettista-disegnatore come ospite “recitante” nel programma di Michele Santoro. E in uno scenario ormai ingolfato da disegnatori di mediocre abilità segnica (da Forattini a Disegni), non è un caso che riescano a suscitare interesse culturale e affetto popolare solo due generi di ‘vignettisti’:

  1. da un lato quei dessinateurs de presse che dal disegno si sono progressivamente allontanati (le vignette di Ellekappa sono quasi dei monogrammi; quelle di Bucchi sono collages e mashup grafici);
  2. dall’altro, quelli che riescono a riappropriarsi del valore comunicativo del disegno, declinandolo però in contesti nuovi, come la rete (è il caso di Makkox).

Il giornalismo surrogato con cui si ritiene di dover presentare Giannelli; il caotico assemblaggio di marionette con cui si ritiene di dover costruire periodici satirici come il Nuovo Male o il Ruvido: effetti collaterali di una visione del disegno satirico da cui è espunto il ruolo centrale del disegno. E che sarebbe ora di tornare a mettere al centro.

Fumettismi della domenica

Da ieri, il panorama italiano del fumetto si è arricchito di una nuova occasione per così dire di “concorrenza”: quella tra le pagine domenicali di Corriere e Repubblica.

Su Repubblica è partita la rubrica Il mio mondo in 50 libri di Alessandro Baricco, che ogni settimana sarà accompagnata da un’illustrazione di Manuele Fior:

Al Corriere ha invece debuttato un nuovo inserto, La Lettura, composto da 48 pagine articolate in quattro sezioni: Caratteri (libri e narrativa), Orizzonti (media e nuovi linguaggi), Sguardi (arte), Percorsi (reportage, storie e graphic novel). E la doppia pagina dedicata al fumetto si è aperta con un lavoro di Igort:

Che questa presenza di fumettisti, particolarmente centrale ed esplicita nel caso del Corriere, sia un ennesimo caso di “ritorno di attenzione al fumetto” (come ho provato a scrivere qui) mi pare evidente. Altrettanto evidente, ma forse ancora poco riconosciuto, mi pare il dato sul “palinsesto” (e/o abitudini di consumo) che si sta consolidando intorno alla relazione tra fumetto e stampa generalista. Ovvero una collocazione che ha origini antiche: la centralità della domenica, come giorno privilegiato per la lettura in genere, e di fumetto in particolare. Se ci pensate, nulla di cui stupirsi: è un po’ come ai tempi – un secolo fa – dei Sunday Comics Special che popolavano, in chiave di intrattenimento spettacolare – e con una creatività tutta visiva – le pagine dei quotidiani USA.

Insomma, come capita spesso di dire: l’innovazione (anche) nel fumetto contemporaneo si innesta su tradizioni profonde, che – finalmente, a differenza di 10/20 anni fa – riescono a trovare occasioni di reinterpretazione e rinnovamento. Un bel segnale, a mio avviso, del recupero di una memoria e di un senso del ruolo ‘comune’ – persino banale – del fumetto, come ingrediente legittimo tra le diverse pietanze di un’offerta di informazione, narrazione, cultura.

Una breve coda polemica, tuttavia.

Da osservatore ho seguito un po’ la copertura di queste “buone notizie” da parte dell’informazione, inclusa quella specializzata in fumetto. O almeno ci ho provato. Già, perché l’informazione sul fumetto – almeno quella online – pare avere decisamente snobbato queste uscite, prima, durante (ieri) e dopo.

E allora mi rivolgo, francamente stupefatto, a testate come Spaziobianco, Mangaforever, afnews, houseofmystery, Comicus, fumettodautore, cfapaz…: cari amici/colleghi/quelcheè: dove eravate, in questi ultimi giorni? Non eravate al corrente dell’uscita dell’inserto domenicale del Corriere (incluse le indiscrezioni ormai diffuse sulla presenza di due pagine di fumetto)? E una volta annunciato e poi uscito: non lo avete letto? Se sì (come credo): come è possibile che lo riteniate meno rilevante delle pur numerose news che, come sempre, avete rilanciato negli ultimi giorni?

Mi vengono in mente solo parole un po’ noiose, e persino antipatiche: mi pare un episodio tra lo sconfortante e lo scandaloso. Va bene tutto, ma non ‘bucare’ notizie che riguardano i due principali quotidiani del paese. E in particolare, mi pare inaccettabile bucare la notizia sulle due pagine di fumetti – inediti, e creati dai nostri maggiori talenti – offerte dal primo quotidiano nazionale.

Non vorrei fare il finto ingenuo: sono rimasto davvero stupito. Anche perché, ai tempi di Internet, sarebbero bastate una foto e due righe, quantomeno tra ieri e oggi.

Un anno fa, discutendo di alcuni limiti dell’informazione sul fumetto in Italia, scrivevo “meno news, più giornalismo”. Oggi viene persino da chiedersi: possibile che pure le notizie, quando sono chiare ed evidenti, si faccia fatica a riconoscerle?