Topolino da Disney a Panini

La notizia. A breve i commenti. Intanto, sdrammatizziamo:

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Ma se volete deprimervi sul serio, ci sono sempre gli sconfortanti commenti alla notizia sul Corsera.

Siamo il paese in cui Topolino

Oggi esce in edicola Topolino n.3000. Per me, come per molti, è il momento di festeggiarlo: una cifra tonda storica, che merita attenzione, se non rispetto, e persino affetto (quantomeno il mio, disneyòfilo reo confesso). Qualche dettaglio sui contenuti lo trovate qui, e qualcuno che condivide lo spirito con cui partecipo al sentimento di festa, invece, ne ha scritto qui.

Tutto questo nonostante i dati sull’andamento delle vendite del settimanale continuino ad essere preoccupanti, se non drammatici. I dati Ads relativi alla media di Marzo 2013 parlano, alla voce “diffusione media”, di quasi 123.000 copie, ovvero l’ennesimo segno meno (-2,7%) rispetto al mese precedente. Si tratta di 56.000 copie vendute + 63.000 abbonamenti: la cosiddetta “pagata” è quindi intorno alle 118.000 copie alla settimana. Cui vanno aggiunte – bontà loro – ben 1.458 copie digitali (una di quelle, peraltro, probabilmente a causa mia, ché ne comprai una proprio pochi mesi fa).

La festa è, insomma, qualcosa di cui i disneyòfili hanno forse davvero bisogno, in un quadro tanto cupo. E sarà bello, oggi, poter andare in edicola come un tempo, pensando al semplice piacere di acquistare un oggetto che, nel corso dei suoi 80 anni, ha legato tanti fra noi. Generazioni di amici, genealogie famigliari, e piccoli, splendidi istanti individuali rubati a momenti noiosi (sale d’attesa, barbosi raduni parentali, scuola, mezzi pubblici) o consciamente investiti in un minuscolo – ma non per questo poco intenso – piacere di lettura.

Con l’auspicio che, qualsiasi sia il futuro prossimo della testata, e il destino della sua prossima gestione, non si dimentichino le ragioni storiche e creative che, solo 20 anni fa, resero questo settimanale di fumetti born in the USA un paradossale – enorme, irripetibile (?) – successo tutto italiano:

il talloncino con cui il distributore comunicò alla Disney il venduto di Topolino n.1964 (1993)

il talloncino con cui il distributore comunicò alla Disney il venduto di Topolino n.1964 (1993)

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in un’altra foto – con mano ancor più malferma – l’intero ritaglio [foto scattata a Rapalloonia 2012]

Piccolo update: lo storify della giornata di ‘festa’ su Twitter, qui.

La copertina (pirata) dell’anno

Da qualche giorno è in edicola il nuovo numero del settimanale Topolino (n.2979), la cui copertina mi è parsa un’operazione non solo ben riuscita, ma un fatto che nasconde un piccolo, formidabile paradosso (contrappasso?) storico.

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A voler essere precisi, gli elementi interessanti di questa copertina sono quattro.

Il primo è senza dubbio l’aspetto vintage, ovvero il fatto che riproponga esattamente – in formato ridotto – la copertina del primo numero del “Topolino giornale” pubblicato da Nerbini il 30 (datato 31) dicembre di 80 anni fa:

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Il secondo sono le caratteristiche cartotecniche: una copertina con verniciatura effetto metallizzato, e in rilievo sia nel logo che nei bordi delle vignette stesse. Una rarità per una testata popolare italiana (un microtrend del 2012, se pensiamo anche alle copertine di Mytico del Corsera), che riesce a ri-spettacolarizzare un recupero filologico.

Il terzo è che la scelta di questo omaggio storico porta con sé una eccezione nell’uso dei codici abituali nelle copertine: non più una illustrazione, ma un vero e proprio fumetto di una pagina (firmato, all’epoca, da Giove Toppi).

Ma il dettaglio più sorprendente è un altro.

Quel primo Topolino del 1932 venne realizzato in violazione dei diritti. L’editore Nerbini affermava, citandolo nell’editoriale, di averli negoziati con il Consorzio Cinematografico Edizioni Artistiche Internazionale di Roma (EIA). L’editore Frassinelli accusò Nerbini di essersi appropriato indebitamente di una licenza di cui non disponeva EIA (vero) ma Frassinelli stesso (falso). In realtà il legittimo detentore era un quarto soggetto, Guglielmo Emanuel, agente esclusivo per il King Features Syndicate e anche per i fumetti Disney, con il quale Nerbini arriverà ad un accordo verso la fine del gennaio 1933.

Il quarto aspetto è quindi un’autentica rarità: Topolino, testata simbolo della corporation più attenta – talvolta persino aggressiva – alle regole del copyright, omaggia, riproducendola, una versione sostanzialmente “pirata” con cui, nel 1932, iniziò il proprio successo italiano.

Una copertina ‘bella’, ma anche un caso decisamente fuori dall’ordinario. Un piccolo paradosso-record, tutto italiano.

LA notizia: Disney compra Star Wars

Una foto che resterà nella storia dell’industria dei media: George Lucas firma il contratto di vendita della Lucasfilm a Walt Disney Company, accanto a Bob Iger:

La notizia è di un’oretta fa, ed è di quelle destinate a riempire le news a lungo: a tre anni e mezzo circa dall’acquisizione della Marvel (per 4 miliardi di $), Disney ha annunciato di avere raggiunto un accordo per l’acquisizione da Lucas – proprietario al 100% – della Lucasfilm, del valore di 4,05 miliardi di $, metà cash metà in azioni Disney (il che farà di lui il secondo azionista individuale, se ben ricordo, dopo Steve Jobs).

A questo punto, con l’ingresso di Star Wars, la character library di casa Disney diventa qualcosa di difficilmente comparabile ad altri casi, passati o presenti che siano. Ed è certo che da questa fusione ci potremo attendere nuovi sequel o prequel di Star Wars, una maggiore visibilità e distribuzione dei prodotti di Lucas, e una potenziale integrazione con altri brand in portafoglio a Disney.

In termini industriali, la mossa pare inattaccabile e, per certi versi, un colpo magistrale. Ma è anche vero che stiamo parlando di un’entità che unisce Disney, Pixar, Marvel, Star Wars. Una library mai vista prima. E la logica top-down dell’integrazione industriale non è la sola ad essere sul tavolo.

Per prodotti il cui successo ha avuto le caratteristiche di molti fra quelli nati in quei brand, ovvero quelle dei fenomeni di una cultura partecipativa – “indie” e/o fan-based – è evidente che la sfida del futuro diventa sempre più tosta. Coniugare la direttività degli obiettivi del marketing aziendale con l’abilitazione della partecipazione ‘spontanea’ del consumo. In una prospettiva ‘interna’, un equilibrio particolarmente sfidante. In una prospettiva più ‘esterna’, un equilibrismo tutto da dimostrare, se non fragile.

Alcuni consumatori (fans o come vogliamo chiamarli) di Star Wars si sono già fatti sentire su Twitter, dimostrando come le implicazioni di questa acquisizione non siano pacifiche. Forse ancora meno di quella Disney/Marvel.

Ma se la resistenza della fan-base non è una novità (e le stesse content companies la hanno eletta, spesso, a mitologia fondativa o a frame strategico per le attività di mkt e comunicazione – un cortocircuito ancora troppo giovane per vederne effetti macroscopici), è anche vero che qui siamo di fronte al “caso di scuola” per eccellenza: Star Wars, e il suo fandom-status. Disney-Pixar-Marvel-StarWars: un magico oligopolio simbolico, in un immaginario che non smette di cambiare e trasformarsi, anche industrialmente, nel corso del nostro tempo.

Clima teso in Disney/Marvel: l’inchiesta del Financial Times

Una eccellente inchiesta del Financial Times indaga sulle conseguenze organizzative dell’acquisizione di Marvel da parte di Disney. E solleva il velo sulle profonde dispute interne al management. Dispute che sembrano avere una portata più disruptive del previsto: conflitti strategici profondi, accuse di razzismo, e un’ondata di dimissioni eccellenti. Il tutto condito da una (poco rasserenante) quantità di no comment.

Per come la dipinge il FT, il nodo della vicenda ha un nome e cognome: Ike Perlmutter, uomo forte di casa Marvel, divenuto con l’acquisizione il secondo azionista individuale più importante della Disney (dopo Steve Jobs e eredi).

Per un verso, il successo del film The Avengers (1,5 miliardi $ in incassi worldwide) ha finalmente dimostrato agli analisti che l’acquisizione di Marvel nel 2009 (4 miliardi $) è stata una scelta saggia e fortunata. E lo scetticismo nei confronti del progetto di Perlmutter si è ormai dissipato. Per altri versi, però, questo successo ha rafforzato la posizione di forza di Perlmutter in Disney, presso cui l’influenza dell’azionista si sta configurando come uno scontro tra culture aziendali, visioni del business, e stili manageriali. Uno scontro che pare esprimersi in forme particolarmente problematiche, fatte di spasmodica attenzione ai costi (con tanto di aneddoti su Perlmutter infuriato per lo spreco di fogli di carta per gli appunti) e diverbi bruschi ai limiti dell’offensivo (ne riparliamo sotto), al punto a fare chiedere a molti: “chi ha realmente comprato chi?”.

I punti caldi sembrano essere tre:

1. La strategia. Nel settembre 2011 Andy Mooney, Presidente della divisione più profittevole e in crescita dell’azienda, Disney Consumer Product, aveva abbandonato Disney in una separazione piuttosto chiacchierata, affidata a una email, rifiutando di farsi intervistare. Secondo il Financial Times, le ragioni erano nelle divergenze con Perlmutter:

Mooney avrebbe voluto continuare a coltivare relazioni a lungo termine con produttori di giocattoli e altri licenziatari, mentre Perlmutter avrebbe sostenuto l’opportunità di contratti a breve termine dotati di ampi minimi garantiti.

A Perlmutter era stato in seguito attribuito un ruolo determinante nell’allontanamento del Presidente di un altro importante ramo del gruppo, i Disney Studios: Rich Ross, responsabile di un flop ritenuto inaccettabile come quello del film John Carter, era stato licenziato a fine aprile 2012.

2. Il razzismo. Qui un punto assai delicato della vicenda, da prendere con le dovute pinze, fondato su due episodi. Uno riguarda le parole che Perlmutter avrebbe pronunciato su un cambio nel cast di Iron Man 2, con il passaggio da un attore afroamericano a un altro, meno costoso: “tanto nessuno noterà la differenza, visto che i neri si assomigliano tutti”. L’altro episodio sarebbe la lamentela sottoposta formalmente al reparto risorse umane da una dirigente (anch’essa afroamericana) del gruppo, Anne Gates (CFO della stessa divisione DCP), che secondo alcuni era inerente questioni razziali (ma alcune fonti sostengono che le ragioni fossero differenti; la Gates, però, ha rifiutato di commentare). Perlmutter avrebbe contestato alla Gates alcuni criteri nella redazione del bilancio, apostrofandola pesantemente.

3. Gli abbandoni. La Gates e altre due dirigenti – sempre donne afroamericane – hanno lasciato Disney Consumer Products, scegliendo peraltro di farsi difendere dallo stesso avvocato, in un’alleanza informale che – secondo altre fonti aziendali consultate da Deadline – le tre pare chiamassero “The Help“, come il recente film Disney sui problemi dell’integrazione razziale negli USA anni Settanta. Tra gli altri dirigenti chiave che hanno lasciato la Disney, oltre a tutti i manager che riportavano a Mooney durante la sua presidenza della DCP: Gary Foster, responsabile comunicazione; Russell Hampton, responsabile publishing; Susan Garelli, responsabile risorese umane presso DCP; Jim Fielding, responsabile Disney stores; Vince Klaseus, dirigente nel segmento giocattoli. E come scrive il giornalista del FT, che pare avere provato a contattarli tutti:

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Insomma: il clima è teso, e la situazione pare davvero complicata. E questo, nonostante il gruppo viva una fase economicamente felice, stando ai risultati degli ultimi bilanci. Disney ha comprato Marvel, ma la cultura aziendale di Burbank sembra faticare a imporsi su quella Marvel. O meglio, sulla visione di Perlmutter.

Il che potrebbe anche essere un bene, come scrive il blog conservatore Whiskeysplace: la crisi del modello hollywoodiano classico, evidente a tutti i principali attori dell’industria audiovisiva, ha trovato in Perlmutter il portatore di una possibile alternativa strategica. Incentrata su un severo controllo dei costi, e su una visione “finanziarizzata” incentrata sul mercato – certamente volatile – della licensing industry.

Potrebbe però anche essere un grosso problema. Per lo stile brusco e le opinioni discutibili (se confermate) dell’uomo; per i rischi sconosciuti dell’abbandono di strategie a lungo termine; e per il futuro di una “cultura Disney” che pare sempre più destinata a trasformarsi, o sciogliersi lentamente.