Una eccellente inchiesta del Financial Times indaga sulle conseguenze organizzative dell’acquisizione di Marvel da parte di Disney. E solleva il velo sulle profonde dispute interne al management. Dispute che sembrano avere una portata più disruptive del previsto: conflitti strategici profondi, accuse di razzismo, e un’ondata di dimissioni eccellenti. Il tutto condito da una (poco rasserenante) quantità di no comment.
Per come la dipinge il FT, il nodo della vicenda ha un nome e cognome: Ike Perlmutter, uomo forte di casa Marvel, divenuto con l’acquisizione il secondo azionista individuale più importante della Disney (dopo Steve Jobs e eredi).
Per un verso, il successo del film The Avengers (1,5 miliardi $ in incassi worldwide) ha finalmente dimostrato agli analisti che l’acquisizione di Marvel nel 2009 (4 miliardi $) è stata una scelta saggia e fortunata. E lo scetticismo nei confronti del progetto di Perlmutter si è ormai dissipato. Per altri versi, però, questo successo ha rafforzato la posizione di forza di Perlmutter in Disney, presso cui l’influenza dell’azionista si sta configurando come uno scontro tra culture aziendali, visioni del business, e stili manageriali. Uno scontro che pare esprimersi in forme particolarmente problematiche, fatte di spasmodica attenzione ai costi (con tanto di aneddoti su Perlmutter infuriato per lo spreco di fogli di carta per gli appunti) e diverbi bruschi ai limiti dell’offensivo (ne riparliamo sotto), al punto a fare chiedere a molti: “chi ha realmente comprato chi?”.
I punti caldi sembrano essere tre:
1. La strategia. Nel settembre 2011 Andy Mooney, Presidente della divisione più profittevole e in crescita dell’azienda, Disney Consumer Product, aveva abbandonato Disney in una separazione piuttosto chiacchierata, affidata a una email, rifiutando di farsi intervistare. Secondo il Financial Times, le ragioni erano nelle divergenze con Perlmutter:
Mooney avrebbe voluto continuare a coltivare relazioni a lungo termine con produttori di giocattoli e altri licenziatari, mentre Perlmutter avrebbe sostenuto l’opportunità di contratti a breve termine dotati di ampi minimi garantiti.
A Perlmutter era stato in seguito attribuito un ruolo determinante nell’allontanamento del Presidente di un altro importante ramo del gruppo, i Disney Studios: Rich Ross, responsabile di un flop ritenuto inaccettabile come quello del film John Carter, era stato licenziato a fine aprile 2012.
2. Il razzismo. Qui un punto assai delicato della vicenda, da prendere con le dovute pinze, fondato su due episodi. Uno riguarda le parole che Perlmutter avrebbe pronunciato su un cambio nel cast di Iron Man 2, con il passaggio da un attore afroamericano a un altro, meno costoso: “tanto nessuno noterà la differenza, visto che i neri si assomigliano tutti”. L’altro episodio sarebbe la lamentela sottoposta formalmente al reparto risorse umane da una dirigente (anch’essa afroamericana) del gruppo, Anne Gates (CFO della stessa divisione DCP), che secondo alcuni era inerente questioni razziali (ma alcune fonti sostengono che le ragioni fossero differenti; la Gates, però, ha rifiutato di commentare). Perlmutter avrebbe contestato alla Gates alcuni criteri nella redazione del bilancio, apostrofandola pesantemente.
3. Gli abbandoni. La Gates e altre due dirigenti – sempre donne afroamericane – hanno lasciato Disney Consumer Products, scegliendo peraltro di farsi difendere dallo stesso avvocato, in un’alleanza informale che – secondo altre fonti aziendali consultate da Deadline – le tre pare chiamassero “The Help“, come il recente film Disney sui problemi dell’integrazione razziale negli USA anni Settanta. Tra gli altri dirigenti chiave che hanno lasciato la Disney, oltre a tutti i manager che riportavano a Mooney durante la sua presidenza della DCP: Gary Foster, responsabile comunicazione; Russell Hampton, responsabile publishing; Susan Garelli, responsabile risorese umane presso DCP; Jim Fielding, responsabile Disney stores; Vince Klaseus, dirigente nel segmento giocattoli. E come scrive il giornalista del FT, che pare avere provato a contattarli tutti:
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Insomma: il clima è teso, e la situazione pare davvero complicata. E questo, nonostante il gruppo viva una fase economicamente felice, stando ai risultati degli ultimi bilanci. Disney ha comprato Marvel, ma la cultura aziendale di Burbank sembra faticare a imporsi su quella Marvel. O meglio, sulla visione di Perlmutter.
Il che potrebbe anche essere un bene, come scrive il blog conservatore Whiskeysplace: la crisi del modello hollywoodiano classico, evidente a tutti i principali attori dell’industria audiovisiva, ha trovato in Perlmutter il portatore di una possibile alternativa strategica. Incentrata su un severo controllo dei costi, e su una visione “finanziarizzata” incentrata sul mercato – certamente volatile – della licensing industry.
Potrebbe però anche essere un grosso problema. Per lo stile brusco e le opinioni discutibili (se confermate) dell’uomo; per i rischi sconosciuti dell’abbandono di strategie a lungo termine; e per il futuro di una “cultura Disney” che pare sempre più destinata a trasformarsi, o sciogliersi lentamente.
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