Il volume Vittorini e i balloons. I fumetti del Politecnico, di Annalisa Stancanelli, è un agile saggio in parte utile e in parte futile.
Utile, perché mette a disposizione, in una piccola monografia, i principali materiali disponibili su una vicenda importante: il ruolo di Vittorini per il fumetto, e viceversa.
Futile, perché lo fa seguendo un’ottica che è più compilativa che interpretativa: quasi metà delle 100 pagine è dedicata a scansioni di articoli del Politecnico, e il resto è affidato ad una ricostruzione che sostanzialmente passa in rassegna, commentandoli, articoli e interviste.
Se dunque il lettore si attendesse una vasta contestualizzazione storica, ed un affondo nella vicenda intellettuale di un animatore culturale decisivo come Vittorini, ne resterebbe frustrato: non troverà infatti che uno strumento di consultazione, più che una visione d’insieme. Una occasione persa, insomma, per rilanciare – a partire da Vittorini – la più ampia questione del rapporto tra intellettuali italiani, mondo letterario e cultura del fumetto. Peraltro, con spiacevoli (nulla di nuovo, per carità – e con parecchie scusanti per l’autrice, vista la scarsità di fonti attendibili) cadute storiografiche:
Il fumetto, propriamente inteso come narrazione fatta attraverso elementi esclusivamente grafici, nasce il 5 maggio 1895 quando il disegnatore americano R. C. Outcault realizzò una vignetta che aveva l’innovativa caratteristica di riportare i dialoghi dei personaggi racchiusi in una nuvoletta (balloon) di “fumo” (da qui fumetto)
[e in nota a piè di pagina, la Stancanelli mostra i limiti della propria ricerca bibliografica sulla storia del fumetto: “si vedano le sezioni relative dei siti http://www.lfb.it, http://www.paomag.net, http://www.martello.it, http://www.ubcfumetti.com”%5D
Ma per guardare agli aspetti utili, vorrei sottolinearne uno. Che ho trovato affidato alle parole di Raffaele Crovi:
Vittorini ha affermato che uno “spirito di fumetto” lo aveva guidato anche nel gusto del montaggio con immagini nell’orchestrare Americana, la sua famosa antologia della letteratura statunitense (del 1941); la stessa attenzione all’uso delle immagini lo guidò nel progettare e impaginare “Il Politecnico” […]
Vittorini ha anche dichiarato che nella sua celebre collana einaudiana di narrativa (che si sviluppò in 58 volumi dal 1951 al 1958) avrebbe voluto pubblicare un romanzo a fumetti o un fotoromanzo sociale; ma non riuscì a scovarne i possibili autori.
Nel suo piccolo, e col senno di poi, potrebbe essere una notizia: Vittorini cercava autori cui commissionare un graphic novel. Ma a metà anni 50, una simile intenzione poteva rivelarsi meno banale del previsto. E’ poi interessante notare che Crovi allude, in alternativa, ad un “fotoromanzo sociale”. E sebbene l’associazione tra fumetto e fotoromanzo possa fare sorridere, non deve stupirci: Vittorini, anche in questa occasione (seppure via relata refero) dimostra come il suo interesse per il fumetto si fondesse in un più ampio – e generale, e generico – interesse per le immagini. Un editor sensbile alla creazione di oggetti editoriali che delle immagini facessero uso, come parte integrante del design librario.
Naturalmente la questione che si pone qui – e che sarebbe stato interessante vedere sviscerata in un simile saggio – potrebbe essere posta in questi termini: quale valore avevano le immagini (disegnate) per Vittorini? Quello di linguaggi visivi “in sé”, oppure quello di strumenti – compiuti, per carità – nel contesto di un progetto culturale fondato sulla centralità della parola? E in che misura i comics furono, nel dopoguerra, un campo in cui si scontrò – forse per l’ultima volta – una visione drammaticamente “alfabetica” (come l’ha chiamata Abruzzese) della cultura moderna, con la sua controparte (anch’essa di drammatica profondità, come la parabola berlusconiana si è trovata poi ad incarnare, in chiave opposta e contraria)? In che misura Vittorini, attraverso il ‘caso’ del fumetto, rappresenta davvero un tentativo di superamento – nel regime delle immagini – dell’antico distacco tra letterati e popolo (come auspicato da Gramsci), o piuttosto rimane un’evoluzione, diciamo ‘riformista’, della tradizionale pedagogia culturale fondata sulla centralità letteraria e l’ancillarità dell’immagine disegnata?
Speravo di riporre questo libro con una risposta a simili domande, per quanto grossolane. E invece ho scoperto che Vittorini era “solamente” pronto a creare un nuovo modo di proporre fumetti: dare loro un corpo e un formato romanzesco. Anche a costo di stirare la definizione di ‘romanzo a fumetti’ fino a fare questo:
[è sempre Crovi a parlare] Soddisfece, però, in un certo senso, questo desiderio molti anni dopo, programmando per la sua collana mondadoriana Nuovi Scrittori Stranieri (dove documentò l’innovativa creatività espressiva anche di Kawabata, Perec, Kluge, Sylvia Plath), i romanzi a strisce L’antichissimo mondo di B.C. di Johnny Hart (nel 1965) e I polli non hanno sedie del franco-argentino Copi
In un simbolico e insieme concreto passaggio di consegne, sarà lo stesso Raffaele Crovi a compiere una delle scelte editoriali che più hanno influenzato la storia della cultura fumettistica, in Italia e non solo:
come nuovo responsabile della produzione mondadoriana nel 1961 pubblicai I fumetti, un documentato saggio di Carlo Della Corte (veneziano del Lido, amico dei fumettari Alberto Ongaro e Hugo Pratt)
45.463064
9.176909
Filed under: fumettologia, storia del fumetto | Tagged: elio vittorini, raffaele crovi | 2 Comments »