Finalmente, dopo anni di dibattito sul graphic novel schiacciato, soprattutto in Italia, su questioni nominalistiche – le “mode” giornalistiche scatenano di questi effetti – pare che la discussione inizi a entrare nel vivo.
Un buon esempio mi sembra lo spunto sollevato dal blog Conversazioni sul fumetto e sviluppato nei commenti a questo post. Che provo a riprendere, per svilupparne con calma gli argomenti, in tre passaggi.
Uno. Il graphic novel è troppo spesso autobiografico?
La discussione era a proposito del “graphic novel autobiografico”. Un genere che ha avuto grande spazio negli ultimi 20 anni. E che finalmente – complici anche le sempre più numerose traduzioni – sta diventando oggetto di una rilettura critica, attraverso una storicizzazione che inizia a coglierne opportunità e limiti. Come ha scritto nel suo post Andrea, con semplice schiettezza:
Sostanzialmente, ai graphic novel attuali servono autori capaci di scrivere e disegnare un romanzo, ma recentemente in molti hanno trovato un escamotage. […]
Per portare degli esempi, fumetti come Fun Home di Alison Bechdel, Blankets di Craig Thompson, la ripetitiva produzione di Jeffrey Brown e My New York Diary di Julie Doucet, citando autobiografie di successo, sono letture vuote che non hanno nessuno scopo e che non conducono il lettore da nessuna parte; figlie di una generazione di autori che, non sapendo inventare o faticando a trovare storie valide, cercano una scappatoia nel raccontare la propria vita.
La percezione di questa “assenza di scopo” è stata ripresa nei commenti e, di esempio in esempio, la discussione ha preso la forma di una polemica tanto classica quanto inevitabile: il problema del narcisismo degli autori, e quindi dei rischi di una deriva ‘ombelicale’ presente in molte opere. Come ha chiosato un autore, Ausonia:
in un’autobiografia l’effetto “confessionale del grande fratello”… è terribile. se rimane solo il guardatemi, cagatemi… boh. e negli ultimi anni ne abbiamo lette di cose così, e alcune erano scritte pure benissimo.
Al di là dei casi specifici citati (Bechdel, Brown, Thompson, Doucet, Joe Matt, Gabrielle Bell, Vanessa Davis…), discutibili o meno, la domanda sugli “eccessi autobiografici” è estremamente opportuna, per due ragioni:
- la prima è che, se da un lato è vero che la crescita del graphic novel ha fatto emergere narrazioni su molte “storie di vita”, dall’altro è vero anche che non tutti i lavori in questa vena autobiografica si sono mostrati altrettanto densi, simbolici, originali, interessanti.
- la seconda è che la discussione si aggancia a un altro aspetto, forse più importante: il nesso tra dimensione “romanzesca” del graphic novel e questo sotto-genere “autobiografico”.
Due. Il graphic novel autobiografico è poco *novel*?
La discussione sul post si è presto complicata, e l’insoddisfazione per i graphic novel autobiografici, nei commenti, si è tradotta in una posizione a favore di una “riscossa della fiction”, contrapposta alla stanca rappresentazione delle storie di vita individuali. Una posizione espressa da Ratigher con una sintesi particolarmente chiara per illustrare il punto di vista delle motivazioni autoriali:
Per me il problema è politico. Per me è IL problema politico. L’autobiografia è un genere e come tale capace di alti e bassi (anche altissimi e bassissimi). Ma decidere di dedicarsi nel nuovo millennio all’autobiografia significa contribuire, a mio parere, a ciò che più ci rende schiavi: il culto della persona (o il disprezzo). Non è il momento di tifare od odiare una squadra, è il momento di pensare ad un nuovo sport.
Tuttavia questa posizione non è senza conseguenze. O meglio, non è priva di confusioni: la contrapposizione tra fiction e autobiografia è infatti un’approssimazione rischiosa, persino fuorviante. E non funziona. Lo ha ricordato Giorgio:
se penso alla distanza che c’è tra la vita e la rappresentazione della vita, le autobiografie per me sono comunque fiction.
Ma se quella opposizione non funziona, ecco allora emergere uno snodo ulteriore. E molto interessante: il tema della dimensione “romanzesca” del graphic novel. In un commento Massimiliano lo ha messo a fuoco in modo esplicito:
Secondo me dobbiamo intenderci su cosa sia «romanzo». […] La non fiction novel è altra cosa. La biografia è altra cosa.
Il contributo di questo post e dei suoi commenti ritengo si esaurisca qua. Ma non è di poco conto. La questione che solleva è pertinente e rilevante: in che misura è legittimo chiamare ‘romanzi’ i graphic novel?
Nel contesto del post ci si limita all’opposizione tra fiction e nonfiction, superficiale ed equivoca: un problema antico del dibattito letterario, che ovviamente non serve riprendere qui. Ma mi pare importante sottolineare la domanda che genera, finora rimasta sottotraccia nella riflessione: quali sono i contorni di “genere” narrativo entro cui ha senso parlare di graphic novel, di “romanzo” grafico/a fumetti? Detto altrimenti: cosa fa di un graphic novel un *novel*?
La riflessione su questo aspetto, come sappiamo, è stata a lungo dominata da considerazioni di ordine meramente tecnico (la ‘lunghezza’), editoriale (la formula “one shot”) o merceologico (il formato “libresco”). Mentre una discussione compiuta sul piano della forma narrativa è stata solo abbozzata, e resta tutt’oggi ancorata a discorsi che affondano nelle idee di Will Eisner, Eddie Campbell e pochi studi: dalle banalità naif sull’opera di “lungo respiro” alla ripresa di concetti della teoria letteraria (il romanzo (grafico) come “opera-mondo”).
Insomma: per quanto minuscolo ed embrionale, mi pare che il dibattito in quel post segnali il bisogno crescente di fare passi avanti nella comprensione dello statuto “romanzesco” del graphic novel. Un segnale positivo, dunque.
Eppure, in tutta questa discussione è anche evidente un limite. Uno che mi pare particolarmente profondo: l’assenza di un fattore decisivo per la comprensione del graphic novel autobiografico. Sullo sfondo di un limite ancora più generale: la consapevolezza che si tratti un fattore decisivo per la comprensione del fumetto, al di là della sua configurazione “graphic novel autobiografico”.
Tre. Autobiografico o no, quanto è *graphic* il graphic novel?
Come i commentatori al post di Andrea Queirolo, condivido anche io l’idea che sia importante – tanto più nel 2012, a oltre 25 anni da Maus – rileggere il passato recente e mettere in discussione il nesso autobiografia/graphicnovel. Anche per criticarne le sue derive o la sua cristallizzazione. Tuttavia mi ha sorpreso che, da questa discussione, fosse assente un aspetto fondamentale: non tanto la dimensione “autobiografica”, quanto quella “graphic” del graphic novel.
Tutta questa discussione ruota infatti intorno a un aspetto parziale del graphic novel: la dimensione narrativa. Ma il graphic novel è disegno, oltre che romanzo.
Ho perciò il timore che, procedendo in questa direzione, ci si scordi di qualcosa di decisivo: nel graphic novel il progetto narrativo è solo ‘metà’ (detto per capirci, ovviamente) di un progetto espressivo che è anche “auto-grafico”. Creare un graphic novel – un fumetto – è anche esprimere, creare, tracciare il *proprio* segno. Un segno che, per un buon autore, non può che essere unico, individuale.
Una qualche base bibliografica per sostenere questa tesi fumettologica, per quanto limitata, è peraltro nota: basti pensare al solito John Berger (Sul disegnare, Scheiwiller, 2007) oppure a Philippe Marion (Traces en cases, Academia, 1993; ma anche nel suo capitolo qui).
Come è naturale che sia, non tutti i graphic novel autobiografici raggiungono l’eccellenza nell’equilibrio tra dimensione “autobio” e “autografìa”, come in alcuni casi riconosciuti: il Journal di Fabrice Neaud, il Grande Male di David B., il Maus di Spiegelman. Ma il punto rimane: non ha molto senso giudicare la qualità dei tanti graphic novel autobiografici chiamati in causa guardando solo al lato narrativo.
Peraltro, nel contesto del successo odierno del graphic novel, il rischio è quello di cadere nel ‘tranello’ dei discorsi dei media (o di certa vulgata fumettòfila troppo entusiasta), che tendono sempre più a ‘risucchiare’ il senso del fumetto in una specifica e parziale direzione: il graphic novel come “letteratura romanzesca” disegnata.
Il graphic novel ha una dimensione letteraria, come riconoscono sempre più scrittori, intellettuali, narratologi? Certo. Ma essa non può essere ridotta al suo solo baricentro. Come ha scritto Jan Baetens qui, il rischio è quello di produrre discorsi fondati su “troppa letteratura e non abbastanza fumetto”.

Habibi, di Craig Thompson
Il graphic novel è infatti anche scrittura grafica – “scrittura del corpo”, della mano, e della materia segnica e visiva che manipola. Molti possono o sanno disegnare, ma pochi sanno farlo creando segni unici, inequivocabilmente identitari. E qui la progettualità romanzesca c’entra poco. Per riprendere la provocatoria domanda di Baetens: è forse arrivato il momento di considerare <<il romanzo grafico “contro” la letteratura?>>. Esiste, come accaduto un tempo per la lunga stagione “cinema-centrica” (di cui ho parlato qui), una nascente ideologia “letterario-centrica” nei discorsi e nelle forme del fumetto, incarnata in queste discussioni sul graphic novel?
Il rischio, a mio avviso, è reale. E il solo antidoto è non sovrapporre i criteri di giudizio (parziali) sui romanzi – autobiografici o meno – a quelli (compositi e differenti) sui graphic novel, autobiografici o meno. Accettando la conseguenza che, alla luce di questi ultimi, le valutazioni su molti dei casi citati non potranno che cambiare: per non fare che un esempio, i graphic novel di Jeffrey Brown, che sul piano romanzesco offrono certamente poco, auto-graficamente hanno invece (avuto) un altro e ben maggiore peso.
E questa è la condizione comune a molti lavori del genere “graphic novel autobiografico”, persino ombelicali sul fronte narrativo, ma autenticamente comunicativi sul fronte del disegno: una scrittura talmente “al singolare” da essere irripetibile, incertezze (del segno) incluse. Forse perché una scrittura grafica è persino inevitabilmente ombelicale, là dove può mettere in gioco – mediato non solo dall’idea (la storia) ma dalla mano (il disegno) – il sé, nient’altro che il sé.
La potenza emblematica dell’autobiografia nel fumetto, che si è riverberata in capolavori capaci di segnare – e forse un po’ sconvolgere – la storia letteraria quanto quella artistica (oltre a quella fumettistica) quali Maus, Journal, Grande Male, non viene allora che dalla configurazione di un raro incontro tra materie espressive: l’energia di un raccontarsi grafico (un auto-segno) e l’energia di un raccontarsi narrativo (un’auto-biografia), insieme.
Il giudizio sulla qualità dei risultati era e resta cruciale. E ben vengano le critiche agli esiti più banali o infelici. A un patto: che si esprimano sull’incontro di queste materie espressive. Per una comprensione del graphic novel (del fumetto) orientata meno al novel, e più al graphic.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Filed under: immaginari, linguaggi, teoria/theories | Tagged: graphic novel | 39 Comments »