Come lettura domenicale, riprendiamo – avvicinandoci alla chiusura – la breve “rubrica estiva” di estratti dall’ottimo Uomini si diventa di Michael Chabon. Tocca al capitolo “Una donna perfetta”, del tutto fumetto-centrico, in cui lo scrittore schizza un ritratto degli immaginari di Jack Kirby, e della sua figura femminile più emblematica:
A nove anni mi innamorai di una supereroina che rispondeva all’improbabile nome – nome che ancora adesso, quando lo pronuncio, mi procura un fremito di lussuria e imbarazzo – di Barda. Big Barda. Non mi sono mai ripreso, grazie a Dio, dalla prima volta che la vidi sul numero 8 di Mister Miracle (settembre 1972).
L’intricata cosmogonia pop-zoroastriana dei fumetti disegnati da Jack Kirby per la DC Comics all’inizio degli anni Settanta (in cui Mister Miracle, <<Super artista della fuga>>, occupa un posto di rilievo) è meravigliosa, folle e difficile da riassumere. Per il momento, mi limiterò che Big Barda, comandante del Battaglione delle Furie Femminili, era nata ed era stata addestrata a una vita di costanti battaglie, in un mondo chiamato Apokolips, da una vecchiaccia dickensiana battezzata, con crudele ironia, Granny Goodness, Nonnina Cara. Barda indossava un’elaborata armatura di maglia metallica a scaglie blu, con un elmetto da battaglia vagamente faraonico, e impugnava un impressionante randello metallico (unanimemente considerato un po’ ambiguo dal punto di vista freudiano), denominato Mega-Rod. Quanto all’immensità suggerita dal suo nome, non era semplicemente fisica; tutto in Big Barda possedeva il carattere di grandezza che costituiva l’essenza della sua persona. Parlava per esclamazioni e aveva appetiti pantagruelici. Era brusca, sardonica, impulsiva, e mal tollerava i dubbi e le titubanze di chiunque fosse meno rapido di lei nel cogliere l’attimo. Inoltre, per quanto ne so, è stata la prima supereroina nella storia dei fumetti il cui coraggio, la cui integrità morale e la cui astuta intelligenza, che pure caratterizzavano ogni sua azione, trovavano più felice espressione nella disponibilità, se necessario, a menare le mani.
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Jack Kirby era un tipo un po’ pazzo, culturalmente onnivoro, autodidatta, fanatico di cinema. Cresciuto in mezzo alle risse del Lower East Side, aveva prestato servizio nell’esercito ai tempi duri di Patton. Nei fumetti che disegnava si mescolavano liberamente la brutalità del mondo e le meraviglie del cinema. Col passare del tempo, la sua visione delle cose si fece sempre più cupa, e si acuì la sua percezione dell’indifferenza di un universo ostile al destino degli umani. I suoi lavori per la Marvel di fine anni Sessanta videro con sempre maggiore frequenza le grandi forze primordiali del Bene e del Male combattere un’eterna lotta nella quale il nostro pianeta era nel migliore dei casi uno spettatore, e nel peggiore un’inutile granello di polvere. Questa guerra infinita, questo universo spezzato in due, incisero fortemente sul lavoro di Kirby sugli esseri umani. Per farvi fronte occorrevano individui forti. I personaggi di Kirby divennero sempre più imponenti, statuari. Solcavano le tavole come tragici giganti shakesperiani, assediati da uomini e creato, crepitando di scariche d’energia. Quando sbattevano contro muri ed edifici, i muri e gli edifici crollavano. Fu proprio da questo universo tardo-kirbiano, fatto di grandiosità e conflitto e dolore per un mondo spezzato, che venne fuori Big Barda, brandendo il suo Mega-Rod. Barda era all’altezza di quella lotta.
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Biografi e studiosi di Kirby generalmente concordano sul fatto che Big Barda fosse ispirata, nella forma, a un paginone centrale di Playboy che ritraeva nuda l’attrice Lainie Kazan; ma, nella sostanza, alla defunta Rosalind Kirby, moglie di Jack per cinquant’anni.
Il che mi porta al reale soggetto, o oggetto, di queste elucubrazioni. Dopo aver scoperto Big Barda, nessuna delle dozzinali eroine che incontravo nel corso della mia vita riusciva più a soddisfarmi, che fossero amazzoni o violette o vespe o donne invisibili. Poi una sera conobbi una donna che grande e grossa non lo era affatto. Misurava un metro e cinquanta, e di solito girava disarmata. Non era cresciuta nei quartieracci di Metropolis, né negli orfanatrofi di guerra di Apokolips, bensì nelle vie bordate d’aceri di Ridgewood, New Jersey. Non aveva avuto una vita facile; era stata incoraggiata, come quasi tutte le ragazze della sua epoca, a imparare a rimpicciolirsi, farsi un po’ strega, rendersi invisibile. Era il proverbiale scricciolo – una taglia 36 – eppure possedeva, me ne resi conto immediatamente, una Grandezza interiore. Come Barda, non tollerava volentieri gli stupidi. Non impugnava un Mega-Rod; non le serviva. Di sviluppo narrativo ne aveva da vendere; a volte sembrava che non avesse altro: storie, incidenti, catastrofi, trionfi, una catena ininterrotta. Di tanto in tanto la coglieva la smania della battaglia, e allora muri ed edifici cominciavano a tremare e sgretolarsi. Insomma, non avevo mai conosciuto nessuno di più adatto a guidare il Battaglione delle Furie Femminili. Ora che il tempo, una saggezza duramente guadagnata, quattro gravidanze e il sottoscritto hanno unito gli sforzi per liberarla dalla crudele ironia dei regimi dietetici e di immagine corporea della Apokolips in cui cresciamo le nostre giovani donne, sono convinto che le sue forme riempirebbero a meraviglia, se solo se ne presentasse l’occasione, qualsiasi folle armatura potesse inventarsi Jack Kirby.