50 anni Fantastici

La copertina era datata novembre 1961. Ma in realtà, come hanno ricordato alcuni, Fantastic Four n.1 apparve in edicola l’8 Agosto 1961. Mezzo secolo proprio oggi.

Secondo molti, è stato uno dei più influenti fumetti della storia. Senza alcun dubbio, l’inizio della lunga corsa di Jack Kirby tra i più poderosi imagineers del XX secolo.

La scheda ufficiale, made in Marvel, è qui. Per ricordarne la vicenda editoriale, un articolo di Luca Raffaelli qui.

Per quanto mi riguarda, ripenso alle splendide parole dedicate ai fumetti Marvel – e a Jack Kirby in particolare – da Michael Chabon, qui e qui. E alla luce dei recenti avvenimenti che vedono gli eredi Kirby e Marvel coinvolti nell’ennesimo bisticcio legale sui diritti, ho ripensato anche a questo.

Insomma: 50 anni dopo FF1, oggi è il giorno in cui dedicare un piccolo pensiero a Jack Kirby. Con riconoscenza.

Jack Kirby, in California, al massimo splendore

In un articolo scritto per Vice Magazine (tradotto qui), Dan Nadel racconta l’esperienza di lavoro e di vita in California di Jack Kirby, principale immaginatore del fumetto americano di supereroi:

Da Long Island, Kirby si era trasferito [nel 1969] sulla costa ovest principalmente a causa dei problemi d’asma di sua figlia Lisa, ma anche per il sogno americano e il fascino di Hollywood. Fatta eccezione per gli anni prestati in servizio durante la Seconda Guerra Mondiale, Kirby aveva passato la maggior parte della sua vita intorno a New York.

Naturalmente Nadel descrive quel periodo come turning point, sofferto e decisivo, per la carriera di Kirby:

Un uomo con la sua attitudine, combinata a un forte senso di lealtà e al bisogno di provvedere alla moglie e ai tre figli, non poteva che vivere tempi duri. Tempi sofferti. Kirby, che era cresciuto nella comunità povera degli ebrei del Lower East Side, era davvero divino nel suo talento. Sapeva di essere in grado di costruire dei miti. Ma dal punto di vista pratico era impotente. E quando gli accordi cinematografici vennero annunciati e i cartoni animati andarono in onda e gli altri artisti cominciarono a copiargli i personaggi, Kirby si arrabbiò. Tutto quello che poteva fare era licenziarsi. Lasciò la Marvel nel 1970, e accettò un contratto di tre anni (con l’opzione di estenderlo per altri due) presso la DC Comics, la quale gli concedeva completo—più o meno—controllo creativo, e i diritti.

Il passaggio più interessante arriva, dal mio punto di vista, con la saggia analisi di una delle serie create in quei primi anni ’70, Kamandi:
Kamandi inizia come una specie di copia de Il pianeta delle scimmie. La DC non fu in grado di ottenere i permessi per un adattamento cinematografico, quindi chiesero a Kirby di inventarsi qualcosa per incuriosire una parte dell’audience de Il pianeta delle scimmie. Kirby riciclò un’idea che aveva avuto per una striscia di fumetti nel 1956 e si mise al lavoro. Kamandi è un ragazzo alla deriva in un mondo post-apocalittico regnato da leoni umanoidi. Come ogni cosa che fece Kirby, la storia era piena di umanità e intensità.
Il numero 6 non è solo il migliore della serie, ma anche il momento di massimo splendore dell’intera carriera di Kirby. Mentre sono fuori per un giro su un buggy, Kamandi e la sua ragazza Flower (un’hippie in topless), vengono molestati da alcuni leoni motociclisti […]. I due si devono nascondere. Flower è una ragazza formosa, bella, forte e libera come i migliori personaggi femminili di Kirby. La nostra coppia di eroi trova rifugio in una casa diroccata, dove Kamandi fa solennemente la guardia durante la notte anche se Flower lo invita a raggiungerlo. Mentre si guarda attorno, il ragazzo selvaggio pensa: “Pare che abbiamo tutte le comodità. Un uomo potrebbe trattenersi qui a lungo con provviste e un rifugio.” Kirby era stato un membro della fanteria, e questa scena viene menzionata in molte interviste come una descrizione della sua esperienza della guerra: starsene seduti sulle macerie di qualche castello in attesa dei rinforzi o che la fazione opposta alzi la bandiera bianca. Un uomo può starsene nascosto—Kirby-Kamandi—sotto la coperta con l’arma pronta in mano. Ma il mattino porta un nuovo attacco, e Flower, subito catturata, riesce a liberarsi giusto in tempo per scagliare il suo meraviglioso corpo contro il proiettile di un fucile, sacrificando la sua vita per salvare quella dell’amante. Silenziosamente, Kamandi la porta fuori dal rifugio per piangerne la morte.
Mi pare che Nadel riesca a cogliere bene lo spirito del lavoro di Kirby, con lucidità anche superiore a quella che ho trovato, recentemente, in Michael Chabon:
Mettiamola così: Kirby era un visionario con intensi ricordi della madre, un’immigrata austro-ebrea; un uomo che mantenne la sua famiglia disegnando nonostante la Depressione; un uomo che ha co-creato Capitan America e che poi ha combattuto nel teatro europeo della Seconda Guerra Mondiale. E che ancora, da una casa di Long Island, osservava il secolo svolgersi. Capì quanto le cose erano cambiate e che lui aveva stabilito un incredibile spartiacque. Questa sensazione si riflette nel suo lavoro, in particolare in quello degli anni ’70. Attraversata la prosperità della cultura pop, intuì che era venuto il momento di tornare alle sue radici degli anni ’40, utilizzando i più classici schemi pulp per creare una visione del mondo che fosse divina nel suo fare storia e creare valori.
Un solo problema. Quell’episodio di Kamandi non l’ho mai letto. Dannati fumetti seriali.
Read the rest at Vice Magazine: JACK KIRBY IN CALIFORNIA – Vice Magazine
Thanks to Ratigher

Chabon racconta il fumetto >4

Come lettura domenicale, riprendiamo – avvicinandoci alla chiusura – la breve “rubrica estiva” di estratti dall’ottimo Uomini si diventa di Michael Chabon. Tocca al capitolo “Una donna perfetta”, del tutto fumetto-centrico, in cui lo scrittore schizza un ritratto degli immaginari di Jack Kirby, e della sua figura femminile più emblematica:

A nove anni mi innamorai di una supereroina che rispondeva all’improbabile nome – nome che ancora adesso, quando lo pronuncio, mi procura un fremito di lussuria e imbarazzo – di Barda. Big Barda. Non mi sono mai ripreso, grazie a Dio, dalla prima volta che la vidi sul numero 8 di Mister Miracle (settembre 1972).

L’intricata cosmogonia pop-zoroastriana dei fumetti disegnati da Jack Kirby per la DC Comics all’inizio degli anni Settanta (in cui Mister Miracle, <<Super artista della fuga>>, occupa un posto di rilievo) è meravigliosa, folle e difficile da riassumere. Per il momento, mi limiterò che Big Barda, comandante del Battaglione delle Furie Femminili, era nata ed era stata addestrata a una vita di costanti battaglie, in un mondo chiamato Apokolips, da una vecchiaccia dickensiana battezzata, con crudele ironia, Granny Goodness, Nonnina Cara. Barda indossava un’elaborata armatura di maglia metallica a scaglie blu, con un elmetto da battaglia vagamente faraonico, e impugnava un impressionante randello metallico (unanimemente considerato un po’ ambiguo dal punto di vista freudiano), denominato Mega-Rod. Quanto all’immensità suggerita dal suo nome, non era semplicemente fisica; tutto in Big Barda possedeva il carattere di grandezza che costituiva l’essenza della sua persona. Parlava per esclamazioni e aveva appetiti pantagruelici. Era brusca, sardonica, impulsiva, e mal tollerava i dubbi e le titubanze di chiunque fosse meno rapido di lei nel cogliere l’attimo. Inoltre, per quanto ne so, è stata la prima supereroina nella storia dei fumetti il cui coraggio, la cui integrità morale e la cui astuta intelligenza, che pure caratterizzavano ogni sua azione, trovavano più felice espressione nella disponibilità, se necessario, a menare le mani.

[…]

Jack Kirby era un tipo un po’ pazzo, culturalmente onnivoro, autodidatta, fanatico di cinema. Cresciuto in mezzo alle risse del Lower East Side, aveva prestato servizio nell’esercito ai tempi duri di Patton. Nei fumetti che disegnava si mescolavano liberamente la brutalità del mondo e le meraviglie del cinema. Col passare del tempo, la sua visione delle cose si fece sempre più cupa, e si acuì la sua percezione dell’indifferenza di un universo ostile al destino degli umani. I suoi lavori per la Marvel di fine anni Sessanta videro con sempre maggiore frequenza le grandi forze primordiali del Bene e del Male combattere un’eterna lotta nella quale il nostro pianeta era nel migliore dei casi uno spettatore, e nel peggiore un’inutile granello di polvere. Questa guerra infinita, questo universo spezzato in due, incisero fortemente sul lavoro di Kirby sugli esseri umani. Per farvi fronte occorrevano individui forti. I personaggi di Kirby divennero sempre più imponenti, statuari. Solcavano le tavole come tragici giganti shakesperiani, assediati da uomini e creato, crepitando di scariche d’energia. Quando sbattevano contro muri ed edifici, i muri e gli edifici crollavano. Fu proprio da questo universo tardo-kirbiano, fatto di grandiosità e conflitto e dolore per un mondo spezzato, che venne fuori Big Barda, brandendo il suo Mega-Rod. Barda era all’altezza di quella lotta.

[…]

Biografi e studiosi di Kirby generalmente concordano sul fatto che Big Barda fosse ispirata, nella forma, a un paginone centrale di Playboy che ritraeva nuda l’attrice Lainie Kazan; ma, nella sostanza, alla defunta Rosalind Kirby, moglie di Jack per cinquant’anni.

Il che mi porta al reale soggetto, o oggetto, di queste elucubrazioni. Dopo aver scoperto Big Barda, nessuna delle dozzinali eroine che incontravo nel corso della mia vita riusciva più a soddisfarmi, che fossero amazzoni o violette o vespe o donne invisibili. Poi una sera conobbi una donna che grande e grossa non lo era affatto. Misurava un metro e cinquanta, e di solito girava disarmata. Non era cresciuta nei quartieracci di Metropolis, né negli orfanatrofi di guerra di Apokolips, bensì nelle vie bordate d’aceri di Ridgewood, New Jersey. Non aveva avuto una vita facile; era stata incoraggiata, come quasi tutte le ragazze della sua epoca, a imparare a rimpicciolirsi, farsi un po’ strega, rendersi invisibile. Era il proverbiale scricciolo – una taglia 36 – eppure possedeva, me ne resi conto immediatamente, una Grandezza interiore. Come Barda, non tollerava volentieri gli stupidi. Non impugnava un Mega-Rod; non le serviva. Di sviluppo narrativo ne aveva da vendere; a volte sembrava che non avesse altro: storie, incidenti, catastrofi, trionfi, una catena ininterrotta. Di tanto in tanto la coglieva la smania della battaglia, e allora muri ed edifici cominciavano a tremare e sgretolarsi. Insomma, non avevo mai conosciuto nessuno di più adatto a guidare il Battaglione delle Furie Femminili. Ora che il tempo, una saggezza duramente guadagnata, quattro gravidanze e il sottoscritto hanno unito gli sforzi per liberarla dalla crudele ironia dei regimi dietetici e di immagine corporea della Apokolips in cui cresciamo le nostre giovani donne, sono convinto che le sue forme riempirebbero a meraviglia, se solo se ne presentasse l’occasione, qualsiasi folle armatura potesse inventarsi Jack Kirby.

Press review fumettologica

Per il weekend in arrivo, viste anche le non eccelse previsioni meteo, si consiglia qualche buona lettura. Sia fumettistica (io mi butterò sul buon vecchio Tardi, un po’ di Topolino e sul nuovo Pic-Nic) che fumettologica. Tra queste ultime, mi permetto qualche dritta, ovvero una serie di link esplorati di recente :

  • Lo storico dell’animazione John Canemaker prova a ragionare – e l’Italia ringrazia – sulle influenze giottesce nella Biancaneve disneyana, in un articolo per il sempre interessante magazine Print: qui
  • Paul Gravett racconta il percorso che ha condotto alla realizzazione della splendida mostra su Jack Kirby che ha appena inaugurato a Lucerna – nell’ambito del Festival “Fumetto” – e presenta qualche frammento del Kirby più privato: qui
  • Un reportage su questa e altre mostre dell’eccellente festival svizzero, ormai lanciato alla conquista dello scettro di Festival “d’autore” più amato d’Europa? Lo trovate qui
  • Negli USA il nuovo graphic novel di Daniel Clowes ha iniziato il percorso per fare il pienone di attenzione critica, come si può vedere qui e qui
  • Il blog Sparidinchiostro commenta invece il Dylan Dog Color Fest : Humor, e parla di un (solo) aspetto “eversivo” di questo nuovo supplemento: qui
  • Graeme McMillan si chiede, a partire dalla percezione Comics=Supereroi generata dal boom dei cinecomics: “Cos’è successo al fumetto mainstream?”: qui
  • Un tuffo nel passato, attraverso un numero della rivista alternativa The Realist, interamente dedicato alla memoria di Bill Gaines: qui
  • Lo scrittore fumettofilo Terry Pratchett spiega perché adora Doctor Who, al di là degli evidenti limiti del suo storytelling: qui
  • Se siete sempre a caccia di news, ecco gli sviluppi di una interessante ‘background story’ americana: in California sale la tensione tra San Diego e Los Angeles, ormai in piena guerra a mezzo stampa per contendersi il Salone Comic-Con: qui
  • Per finire, eye-candy per tutti: l’opera di Joost Swarte, ripercorsa in un’ottima ed ampia serie di illustrazioni

Se per caso avete intenzione di abbuffarvi con tutte queste letture, beh, “prendete le precauzioni”. Carta riciclata, babe.