Il magazine Exibart, in un recente articolo apparso online, parla di critica del fumetto. Un tema classico, di quelli che riemergono periodicamente, nei discorsi intorno al fumetto e alla cultura fumettistica. In fondo, il classico dibattito sulla critica – una prassi di qualsiasi ambito culturale – è un sintomo del bisogno di “check-up periodici” da parte di un paziente di cui, come è inevitabile (e giusto) che sia, tocca seguire lo “stato di salute” – culturale, s’intende.
Il giornalista Gianluca Testa apre il pezzo lanciando il tema della “scarsa maturità” della critica fumettologica, e costruisce una mini-inchiesta in cui chiama in causa me e diversi altri. Vorrei allora proseguire qui, riprendendo e commentando alcune affermazioni per ribadirne alcune, contestarne altre, e soprattutto approfondire alcuni punti che mi pare meritino qualche parola in più. Dunque un consiglio: prima leggete l’articolo, poi tornate qua.
Inizio con Gianfranco Goria (afnews), che dice:
per quelle [altre arti] ci sono livelli consolidati di preparazione universitaria che consentono di svincolarle dal ‘fandom’ e conferire quell’aura di rispettabilità accademica e culturale che nel campo del fumetto sembra ancora lontana da venire”.
Concordo su un punto: l’offerta di formazione universitaria sul fumetto è ancora minima: sporadica (pochi casi), asistematica (qualche singolo seminario e corso, ma nessuna specializzazione o corso di laurea), e a-disciplinare (non esiste un syllabus fumettologico, ovvero un “programma di base” strutturato e condiviso come base “minima” per un programma di studi sul fumetto). Tutto il lavoro fatto negli ultimi 40 anni non è stato invano, ma il fumetto (fatta eccezione per il sistema delle Accademie d’arte, che però meriterebbero un discorso ad hoc, perché non sono volte a formare la critica quanto la pratica artistica).
Sono invece perplesso su un’affermazione di Goria che mi pare ambigua: la formazione universitaria consentirebbe di “conferire un’aura di rispettabilità”. Dal mio punto di vista il significato di questa formazione non risiede nel conferire nessuna “aura”. Anzi: da ricercatore e docente universitario non posso che contestare un simile presupposto: quel che conta, nella formazione universitaria, sono le competenze e gli strumenti critici (analitici, interpretativi ecc.) che può e deve fornire.
L’aura e la rispettabilità non sono il fine dell’università, ma casomai un effetto. A meno che non si intenda l’università semplicemente come un luogo “nobile” o aristocratico, un mondo distante e parallelo utile solo per avere un’aura (l’università come mero “titolo” – ecco riapparire il problemaccio tutto italiano del “valore legale” della laurea…), e non per impadronirsi di strumenti e contenuti. Attenzione: ma se è solo un titolo/aura, perché insistere tanto? Una tipica e diffusa contraddizione del fandom classico, che vede nell’università solo una sorta di “legittimazione dall’esterno”, ma che così facendo rinuncia alla vera sfida che – solo apparantemente – vorrebbe affrontare: la discussione sui contenuti, ovvero le idee, i metodi, le risorse analitiche, con cui discutere/studiare/capire il fumetto.
Goria prosegue poi su altri aspetti, così:
ritengo che [la critica] sia tutto sommato proporzionata a quel che è oggi il fumetto nel nostro paese: agglomerati di nicchie con una base non più numerosa come un tempo, sana ma a rischio, di fumetto a diffusione popolare. Non posso evitare di immaginare che tutto crescerà nuovamente solo quando tornerà a fiorire nel nostro paese il fumetto per bambini e ragazzi”
Il concetto di “proporzione” della critica è interessante. La prospettiva da cui viene una simile considerazione sancisce un banale principio sociologico: la rappresentatività sociale dei fenomeni culturali. Proporzione significa riconoscere, implicitamente, che il ‘peso’ della critica è connesso al peso che il fumetto stesso ha nella società. Vero. Il problema è che l’idea di proporzione guarda solo a un aspetto: la dimensione quantitativa della rappresentatività. La sua equazione è: più mercato = più critica. Il che non è sbagliato. Ma è anche parziale e rischiosissimo, perché perde per strada il punto vero, che non è quantitativo, ma qualitativo. Quando si dibatte, come in questo caso, di “scarsa maturità” della critica non si può intendere che il punto sta nella “bassa quantità di spazi/luoghi/attori”, bensì che c’è un problema di maturità culturale – un fatto del tutto qualitativo. Il che, mi rendo conto, è più difficile ‘misurare’ – ma il tema risiede proprio in questo: discutere la salute culturale della critica non può ridursi al giudizio su quanti spazi ci sono e quante persone vi si esercitano, ma piuttosto su qual è il ruolo e significato che la critica gioca nel più ampio mondo del dibattito culturale, dentor e fuori il perimetro del sistema-fumetto.
Detto in termini brutali: di critici possono essercene anche 2 o 3, ma se la qualità del loro lavoro è significativa, e il sistema-fumetto è in grado di riconoscere tale eccellenza, si può verificare un fenomeno che anche la presenza di un esercito di 1000 critici non può garantire per certo: l’ “influenza”. Non dimentichiamo mai cosa è la critica: non solo una specifica e distinta “fetta” della torta-fumetto (o di un dato settore culturale), ma una fetta particolare, in grado di interagire col resto per spiegare/illuminare/influenzare il sistema.
In altre parole: la critica svolge il suo ruolo compiuto nel sistema – ovvero non è solo “influenzata da” ma è anche un motore che influenza pubblico&artisti&produttori – non tanto quando è “tanta”, ma quando è “credibile/autorevole”. E la credibilità e l’autorevolezza non sono mai effetti della quantità, ma funzioni della competenza e della qualità. Per questo ritengo che l’argomento di Gianfranco sul fumetto per ragazzi sia troppo parziale e rischi di allontanare dal cuore del problema: non basta un grande mercato per avere buona critica. Al massimo basta per avere “tanta” critica: ma fra tanta inutile e poca utile, beh, può persino darsi il caso che averne poca sia più efficace e “potente”, in termini di influenza. Due esempi banali. Quando il fumetto vendeva milioni di copie tra anni 30 e 50, la critica non stava certo meglio di oggi. E quando negli anni 60 emergono interventi critici come quelli di Eco o Vittorini o DelBuono, a fare pratica critica erano in quattro gatti, eppure in grado di influenzare il dibattito culturale ben più di quanto non facciano i critici – certo più numerosi – di oggi.
Direi che di spunti ce ne sono un bel tot, e di questioni che ho (ri)sollevato, pure. Proseguiamo allora più tardi domattina, in un post successivo.
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